Con questo racconto ho partecipato all’edizione 2018 del concorso letterario “Il Bicicletterario”, premiato con “menzione antologica speciale”.
Ringrazio il Bicicletterario per il premio.
Il rumore della ruota posteriore di una bicicletta in corsa, a pedali fermi, non ha un nome. C’è chi lo chiama “ticchettio” ma non rende, perché è un rumore continuo, non è intermittente come il ticchettio di una vecchia macchina da scrivere.
Lo battezzai il giorno che smontasti il mozzo di una vecchia ruota, per farmi vedere cos’era a generarlo. Con le dita nere di grasso mostrasti quel cilindro con i suoi magici cricchetti: Erano loro i minuscoli lavoratori che davano vita a quel cicaleccio, come il frinire senza fine di un grillo infartato sulla stessa nota.
Battezzai quindi “cricchettio”, quel suono incantevole, calmante, accordato con l’aroma del lungomare soleggiato e senza vento, appena dopo pranzo.
Quello della tua bici, in risonanza col telaio, dava una nota che riuscivo a percepire: Un LA preciso a 440 Hertz. Per molti un rumore anonimo, privo di colore.
Col tempo mi scoprii capace nel distinguere le note di ogni bici, ognuna celava la sua. Io nato muto e tu di rare parole.
Il tuo un arbitrario mutismo selettivo, il mio invece ancora indefinito.
Del mio silenzio nessuno si dannava più di quanto non si vergognasse, dando per scontata la tara di famiglia che prima o poi avrei platealmente frantumato.
Tale il nonno, così il nipote. In sostanza per gli altri era tutta colpa tua, di un vecchio pescatore in pensione ostinato e taciturno, il mio unico amico.
Cos’è un amico se non chi ti regala il tempo senza che sia un dono.
La mia anomalia mi avvolgeva in una solitudine frustrante, nessuno che allungasse la mano per raccogliere il filo della mia sudata comunicazione fatta di espressioni, e gesti. Ero uno strano, ed è strano come riuscissero a farmi sentire d’essere un violento, senza che lo fossi mai. La quarantena dell’anomalo.
Mi raccontasti che quando nacqui sembrò la scena di un presepe.
Venni alla luce sotto Natale, senza piangere. Tutti erano attoniti, ammutoliti come pastorelli imbarazzati nel presepe di una “sailen nait”.
Tu e quell’inglese tutto tuo, metabolizzato ascoltando battibecchi di americani.
Fu uno di quei militari della base che sfornò il tuo soprannome. Quegli smargiassi yankee impiastravano la lingua nei colori del dialetto per inventare vocaboli mutanti, catturando divertiti parole sfarfallanti nel tran tran del porto.
“Shark’tiello”. Squaletto. Non era la nominata del pesce predatore ad aver ispirato l’invenzione del nomignolo, ma di sicuro il tuo modo di apparire all’improvviso, taciturno, con quella fila di denti bianchi che sorprendeva chi incontravi. Io per te ero “Gizs”, Jesus. Ho sempre pensato che mi chiamavi così per non scomporre il tuo sorriso.
Avevo tre anni quando costruisti un seggiolino di legno e lo montasti al manubrio della bici, per portarmi a prendere aria al porto e riportarmi a casa dopo l’asilo.
Almeno una volta davi tre colpi di pedale accompagnandoli con le prime tre note di “Sailen nait”: “Sa-i-len…”. Poi facevi una pausa aspettando che io cantassi “nait”.
In quella pausa la ruota emetteva il cricchettio che per me veniva dalla fila dei tuoi denti, in bilico tra burlesco e speranzoso, ma sapevi bene che mi cantavo dentro, che sentivo i suoni nei rumori e nelle cose.
“Uno…due…tre colpi di pedale, per gli altri ero un diverso, per te solo speciale.”
Mi nutrivi in silenzio di ritmi ed armonie. Continuo a chiedermi dove li avessi presi, forse dal mare, dallo sciabordio contro il tuo gozzo, dal cigolio regolare degli scalmi, dalle crome plananti dei gabbiani, dal blues inconsapevole degli americani.
Poi fu il giorno della mia prima bicicletta, ero pesante ormai per le tue gambe.
Il negoziante ci osservava stupito: Il nonno sollevare le bici una ad una, il nipote dare un colpo di pedale e lasciar andare la ruota per ascoltarne il rumore, la giusta nota. Avrebbe mai immaginato che avremmo scelto la bici soprattutto per il suono?
La scegliemmo bianca, anonima, ma era un tondo Do diesis 554 Hertz.
Adesso, insieme sul lungomare, le nostre bici in corsa cricchettavano all’unisono un intervallo di terza maggiore. A tratti intonavi il tuo repertorio ed anche Sailen nait ci stava su benissimo, io però continuavo a non cantarne la fine, e infine cadde il giorno in cui le tue gambe decisero che si era fatto tardi.
Era inizio estate. Mi incaponivo a restare seduto accanto al letto e tu mi spingevi ad uscire ed allenarmi per la gara delle dune. La gara di bici che si teneva ogni anno alla prima luna piena di agosto, come da tradizione, tra i tanti sentieri che discendevano tra isolotti di cespugli dalla collina verso mare, sopra la terra battuta che man mano, avvicinandosi alla spiaggia, perdeva la sua lotta con la sabbia. Non è facile correre in bici sulla sabbia, illuminati solo dalla luna o da qualche torcia del pubblico incitante. Bisogna intuire dove è più compatta, per non affossare e cadere.
Fu allora che mi parlasti della bici fantasma. Mi raccontavi che da ragazzino avevi vinto gare grazie a lei, chiudendo gli occhi per seguirne il suono ti aveva guidato per i giusti sentieri fino in spiaggia e alla vittoria.
La sognai bianca sgraffiare intermittente la pelle della notte, oppure grigia e gelida tratteggiare il lungomare nella luce incerta dei lampioni, in una notte di mare grosso, pioggia e vento uniti sferzare diagonali.
Avrei voluto vederla in equilibrio, senza conducente, ondeggiare con i pedali spinti dall’invisibile senza fermare la pedalata lasciando spazio al cricchettio. Non riuscivo a immaginarne il cricchettio. Qual era la nota? Non me lo dicesti. Dicevi che se me l’avessi rivelata non l’avrei sentita, ed io alla fine non ci credevo, indeciso se amare od odiare quel tuo modo di trascinarmi fino all’apice del serio per disorientarmi in un soffio, rivelandomi d’improvviso che tutto porta in sé la friabilità del castello di sabbia.
La luna piena imbiancava la notte di Ferragosto. Da giorni parlavi a fatica e comunicavamo solo a gesti, i tuoi sempre più deboli, i miei sempre impazienti.
Mi trascinarono via per lasciarti riposare, ma il tuo sguardo prima di lasciarti e andare alla gara fu come un passaggio di testimone alla staffetta.
Ai piedi della collina era tutto color luna.
Era una sailen nait, tranne il rumore di bici e schiamazzi di sostenitori sparsi, alcuni tremolanti al centro del cerchio arancione delle loro torce. La partenza era cento metri dall’inizio del labirinto che, per quanto chiunque potesse conoscerlo, nella semioscurità celava sorprese. Nei cento metri ognuno aveva il tempo di decidere il sentiero in cui tuffarsi a capofitto e raggiungere la spiaggia per primo.
Al via mi trovai dietro al più veloce, imboccammo lo stesso sentiero e a metà percorso, quando ancora non avevo avuto la tentazione di chiudere gli occhi e sapere se esistesse davvero la bici fantasma, lo feci per forza.
Presi in faccia un tentacolo di rovi tuffandomi nella sabbia ancora calda del giorno rovente e sentii quella nota. Distinta dalle ruote degli altri corridori. Un LA 440 Hertz, proprio come la tua bici.
Ad occhi chiusi non mi rialzai. Sentii il sapore della sabbia, sputai via.
Mi piace pensare che ruppi il silenzio cantando “nait”.
Mi ritrovai in mano un rametto di legno sabbiato. Una staffetta infinita, la vita.
“Voglio una bici per tagliare il vento tra i sentieri e la tua mano calda sulla fronte per calmare i miei pensieri”.