Questo racconto è del 2009, Giada è una ragazza ventenne in crisi che verrà aiutata da Afra, una donna di cui crede di essere innamorata.
Male. Mi sveglio male, madida di sudore freddo. Non è più teso, perdo il controllo. Stringo forte in mano il resto del filo spezzato di un aquilone impazzito seguendone ansiosa le traiettorie improvvise, nervose, imprevedibili. Arriva all’alba quel sogno in bianco e nero, ricorre spesso e mi scaccia fuori dal sonno, dal letto e poi di casa. Eppure è qui, in questa natura sempre-vento e sole che ho imparato a sollevare un aquilone, è stato lui ad insegnarmi. Noi due, predestinati all’uso unito quasi fin dai pannolini. Eccoli i miei ventidue anni e l’eterna situazione delle due famiglie di eterni amici, uniti per le vacanze estive nell’usa e scorda sud. Si dorme ammassati dentro veloci pigrizie di ammanigliati conquistatori del metro quadro, igloo scatolari, poli-familiari tufacei odoranti frigo spenti anche se pieni, schegge di plastiche scadenti a scolorire qua e là, incastonate tra graminacee di giardini traditi dopo meno di due mesi e palloni da calcio passito, sempre più piccoli e deformi a disidratare sopra i tetti.
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Nonostante “piccoli” incidenti e ipocrisie si va in eterno uniti e avanti. Ma avanti verso cosa? Uniti contro chi? Aggrappiamoci eternamente. Cosa potremmo desiderare di più dalla vita? In fondo a Luca gli voglio bene, ma non capto più. Ho l’impressione che tutt’intorno stiano tirando i dadi a turno per lo stesso gioco le cui regole nessuno mi sa spiegare e al mio turno recito falsa partecipazione. Qual è lo scopo? Lo scopo… ma lo amo? Non credo, non lo so, la mia riserva di sorprese e brividi esaurita, lo apprezzo molto, ma con lui è come con l’aquilone impazzito, anzi no, è il filo, che quando sembra più tenere invece si spezza e mi punisce frustando il dorso della mano. Il letto mi rigurgita stremata alle cinque di mattina ma il corpo reagisce energico e insofferente, rapido e silente, sprezzante lavandini e colazioni fugge via di casa e invola verso mare. Macchine appannate, siepi, recinti e fichi d’india sfrecciano sui lati, corro a perdifiato inseguita da qualche abbaio, poi finalmente c’è la sabbia e il tunnel di canne che porta fino al mare. Mi fermo un attimo per togliere di fretta le scarpe e via di corsa. Il passaggio è stretto ed in alcuni punti le lunghe foglie mi frustano le cosce e il viso sprizzando la rugiada, mi guidano e riesco a tener gli occhi semichiusi fino in spiaggia. A qualche metro dalla riva getto le scarpe, tiro via la rugiada dal viso, asciugo le mani sui pantaloncini, punto i talloni nella sabbia fredda e comincio a ruotare i piedi fino a sprofondare e a cercare il residuo tepore del sole di ieri. Mentre riprendo fiato osservo. A quell’ora tutto sembra di un violaceo chiaro-scuro. Il cielo dal blu-notte all’indaco, il mare grande e calmo argento sommerso, verde morto e blu petrolio. C’è quella specie di rosa all’orizzonte che sfuma striato di un oro pallido, ancora lontano per sfoggiare tutto il suo bagliore. Comincio ad allungare il respiro e chiudo gli occhi, mi concentro sui rumori. Serve tempo e concentrazione per poter violare quel silenzio finto, per riuscire a carpirne i piccoli segreti. Sto avanzando, i piedi bloccati su un’immensa e lentissima giostra sferica rotante verso il sole, fuoco puro, arde silenzioso, immagino gli slanci sibilanti delle sue lunghe lingue infuocate. Chiudo gli occhi e ascolto proprio bene. Laggiù, dietro il mare, rotea piano l’enorme globo incandescente, il movimento impercettibile, in sottofondo c’è un brusio sommesso, quel leggerissimo fragore. Sembra piano espandersi e rapido smorzarsi, la frequenza di un respiro profondo. Non è il fuoco, è il mondo che si sveglia, come una lontanissima folla medievale viola e nera, ne vedo i movimenti e le smorfie al rallentatore, corre, grida, si accapiglia dannandosi a rincorrere un soldo d’oro rotolante che quando è lì per essere ghermito e la folla rallentando quasi tace, piroetta all’improvviso, come posseduto e sfuggente, lanciato da una torre dorata di prima luce e rimbalzato tintinnante in un vicolo dove il sole non batte quasi mai. Ora ascolto lo sciabordio flebile sulla battigia, riesco a sentire le minuscole frane, la risacca sonnolenta, particolari e particolati di materia naturale e umanizzata miscelati, variegati nelle forme e nei colori. Pezzetti di conchiglie, minuscoli sassolini, variopinti vetrini opacizzati, plastiche, metalli, legnetti, frammenti di ossa e cartilagini, l’ultimo stadio di lavorazione del mare prima di ottenere sabbia. La spiaggia, immenso archivio di destini. Sento qualcos’altro adesso, viene dal mare ma non apro ancora gli occhi. Provo a indovinare. È lei, sono sicura, è il suo rumore. È Afra. Fa la sua passeggiata in mare immersa fino alla vita. Sarà sui quaranta, ha un viso rassicurante, responsabile, di quel dolce che sai che sa ben essere anche duro, i tratti statuari, mi fa pensare a una dea greca, i capelli lunghi raccolti e neri, i riflessi blu. Lo sguardo è penetrante ma non invade, stabile, rilassato, sicuro come il suo andamento, il corpo sinuoso inconsciamente fiero ed elegante. La sento ancora troppo lontana per poter scambiare il consueto saluto. Finora ci siamo parlate poco, per qualche secondo qualche volta, non di più, di solito ci salutiamo e basta. Ogni volta il nostro contatto oculare tradisce come un’ansia lieve a voler dire: «ti prego…non strillare! Non fare alcun rumore!», e dopo reciproco sorriso e cenno con la mano, diventa un tacito: «ero sicura che non l’avresti fatto». A quell’ora ci siamo solo io e lei, consapevoli testimoni di una perenne magica nascita da cui entrambe dipendiamo e che ci rende complici silenziose. Due funambole taciturne, ostetriche sterili, forse per quello più sensibili, in punta di piedi nella quiete di un reparto maternità all’alba. So che Afra va al mare solo all’alba e prima che il sole possa stagliare la sua ombra così netta sulla sabbia che altri possano sformarla e sprofondarla con i piedi, allora va via. Anch’io faccio così e subisco le prediche e i rimproveri di tutti ma preferisco stare a casa. La scusa è che il troppo caldo mi fa sentire male e non voglio stare tutto il giorno sotto l’ombrellone o al riparo del lido tra odori fritti, aromi di calippi e musichette di video-games. Io devo studiare. Che brava ragazza. Afra l’ho ben studiata. So come si chiama perché sono andata a piedi per le stradine bianche e polverose fin fuori casa sua, ho letto il nome sul citofono. Credo che viva quella casa da sola e non solo durante le vacanze estive. Mi da l’aria di un ambiente vissuto ed amato, il giardino ben curato. A casa nostra c’è un telescopio, mio padre è convinto che le stelle su quest’isola si vedano più vicine e la luna sicuramente sì. Ma io ormai lo punto solo su Afra e non la notte ma in tarda mattinata, quando tutti sono al mare ed io e lei a casa. La sua è a qualche centinaio di metri in linea d’aria. La prima volta che l’ho spiata, su dalla terrazza, ho visto Afra chinarsi, e poi rialzarsi in un angolo del giardino, andare dietro una siepe di rosmarino abbastanza alta da riuscire a vederla solo a mezzo busto, liberarsi del costume, scendere e sparire. Dopo l’ho vista alzarsi, avvicinarsi al rosmarino, poi accasciarsi e sparire di nuovo. Il giorno dopo, alla stessa ora, ho deciso, madida di sudore caldo e titubante, di salire con il telescopio sulla collina accanto casa e ho visto. Ho visto Afra chinarsi per azionare gli schizzetti, entrare in quella specie di crop circle, anello di rosmarino circondante un praticello rado, liberarsi dei due pezzi e legarsi i capelli e lentamente adagiarsi sdraiata sull’erba. Al sole pieno, sotto lo schizzetto leggero e vaporoso ho visto un piccolo arcobaleno formarsi su lei nuda, sopra le sue dune. Ho studiato inebetita i riflessi di goccioline a miriadi formarsi e sciogliersi in rivoli mutevoli nelle discese del suo florido corpo bianco-dorato. Ormai sono giorni e giorni che la osservo ed ogni volta, dopo un po’ che è sdraiata, si alza, va verso la siepe di rosmarino e ne spezza tranquilla e decisa un rametto. Torna a sdraiarsi sotto la pioggerella artificiale e comincia a spennellarsi. Su e giù. Molto lentamente, le labbra e gli occhi chiusi distesi e beati. Scorre le foglioline pungenti verde smeraldo sulle gambe, le cosce, pian piano sulle anche, sull’addome e sui seni orgogliosi fino agli apici coperti di rugiada sotto quel vaporoso arcobaleno. Quando arrivo a quel punto, smonto tutto, discendo in fretta la collina del disonore e rientro nell’igloo di tufo deserto, tutti sono al mare e io ne approfitto per liberarmi, veloce, lì, davanti allo specchio del bagno che, subito dopo, riflette la mia faccia colpevole e paonazza. Mi sono innamorata di una donna? Sono una lesbica? Omosessuale? Tutte le etichette. Dopo mi sento confusa. Nervosa. Una maniaca sessuale, disadattata e guardona. Immersa in colpevoli pensieri, ancora i piedi sprofondati nella sabbia e gli occhi chiusi, ho un sobbalzo. Afra è più vicina. Apro gli occhi. Ora la vedo bene. Sta per passare attraverso la piccola foce, il fiumiciattolo sotterraneo che sfocia in mare alla mia destra e so già cosa farà. In quel punto l’acqua è ghiacciata, le arriva fino al collo. Alzerà le braccia come sempre, attraversando. La ripenso spesso in quell’atteggiamento da ballerina classica marina. Riemerge. Riesco a immaginare tutti i suoi pori e i capezzoli germogliati. La prima volta che è apparsa mi ha spaventato. C’era foschia e non mi aspettavo quella silhouette nera avanzare da mare. La mia inquietante, sinuosa signora Lockness. La mia splendida Afrodite spumata dalle onde. Vorrei essere una piovra ed avere una bocca per ogni ventosa di ogni tentacolo, dal più grande al più piccolo, strapparti piano il costume, premerti dolcemente e fermamente contro uno scoglio e suggere il mare salato da tutta la tua superficie, fino al più piccolo dei pori, tinte d’alba. Afra si avvicina e si accorge che la sto fissando. Sfilo velocemente i piedi dalla sabbia e casco seduta. Alzo lo sguardo e ci scambiamo il solito codice ma stavolta devo tradire qualcosa perché ansia-sicurezza tramuta in ansia-sicurezza-ansia, la mia. Lei se ne deve essere accorta, si ferma a pochi metri da me e sottovoce mi fa: «Tutto bene?». E io: «Sissì! Stavo inciampando!» . Non la convince, si avvicina e si ferma poco distante. Mi racconta che ha visto una manta nera mentre passeggiava, dice che quel periodo si avvicinano di più alla riva, le è già capitato altre volte. Mentre parla della manta, così vicino, la mia piovra in fuga già si è inabissata ed io credo di aver perso il rossore o il pallore che sia perché mi sento a mio agio. Il suo tono di voce è piacevole, rassicurante. Ci scambiamo sensazioni e notizie su quell’ora che ci accomuna per un bel po’, poi parliamo di noi. Si siede anche lei. Mi dice che ha origini greche e rumene, è divorziata con due figlie che vivono in città, che ha lavorato come giornalista e traduttrice ed ora scrive libri e fa l’articolista. Riesce a fare quasi tutto da casa con il telelavoro. Ha già pubblicato qualcosa e, tra lo scrivere, le traduzioni e le lezioni di lingua se la cava bene abbastanza per vivere come desidera. Anch’io le parlo della mia vita e il tempo passa. Comincia ad affacciarsi gente in spiaggia. Io devo tradire un’espressione da vampiro sorpreso dal sole perché Afra, complice comprensiva, mi propone di accompagnarla al porticciolo per fare colazione e continuare a chiacchierare. Lei mi mostra il nascondiglio tra gli scogli dove tiene un pareo bianco e nero ed una sacca. Veste il pareo e si incammina verso il porticciolo. Io, con i miei pantaloncini corti, la maglietta e le scarpe da ginnastica in mano la seguo. Finita la sabbia comincia a camminare sul selciato a piedi nudi. Io esito a fermarmi per infilarmi le scarpe. Lei si ferma e si volta, come aspettando che io le metta. Mentre le calzo mi sfugge uno sguardo ai suoi piedi, poi lo alzo al suo viso e neanche mi accorgo di tradire un «Ma come fa?», perché lei rompe il silenzio tirando su le spalle: « Abitudine.» Continuiamo verso il chiosco che da sul porto. Ci sediamo a un tavolino e ordina latte di mandorle fresco e caffè caldo, io un po’ a disagio ed un po’ incuriosita la seguo. Quel contrasto tra il caldo del caffè e la granita del latte di mandorle mi piace molto, mi torna per un attimo l’immagine di Afra, ballerina classica marina che passa la foce del fiumiciattolo ghiacciato, gioco temeraria con la piovra, poi notando i colori dei due liquidi mi torna in mente anche il bianco-nero, la piovra inabissa e io credo di arrossire o impallidire, non bevo più. Afra sorseggia in silenzio osservando il porticciolo e il mercatino del pesce ed io neanche mi accorgo di aver chiuso gli occhi e nel fragore dei mercanti e le chiacchiere del chiosco, immaginare la folla sotto il castello che ormai è qui, ad inseguire il soldo d’oro. Afra mi chiede cosa sto pensando, presa alla sprovvista riapro gli occhi e timidamente condivido l’immagine della folla. Sento di cambiare tinta quando lei sorride e mi dice che dovrei provare a scrivere. Paga, io la ringrazio e lei mi chiede di accompagnarla nella folla. Andiamo ad una bancarella dove c’è un suo amico pescatore, Saro, immagino sui cinquanta, magrissimo, i capelli ricci grigi e il volto bruciati dalla salsedine, gli occhi celesti che sembrano stati scoloriti nell’acqua di mare ma il resto del viso, la voce e la mimica compensano la vivacità, troppa vivacità per me, mi mette a disagio. Noto subito che c’è qualcosa tra loro, come parlano, come si guardano. È strano. Non dev’essere gelosia quella che sto provando, è una invidia latente, sottile. Vedo scambiarsi i loro sguardi complici, come appagati da un saper vivere che mi sfugge, che potrei godere ma solo da spettatrice. Mi mette in imbarazzo. Mentre loro due mercanteggiano intimamente, io, a una certa distanza faccio finta di curiosare, lo sguardo alla vaschetta di vongole sprizzanti. Saro ripone un cartoccio con due grossi pesci nelle mani di Afra e con la coda dell’occhio noto i loro sguardi d’intesa. Ancora invidia? Afra mi scopre e con il suo sguardo di marmo amorevole mi ferisce di nuovo: «Tutto bene?». Mi guardano entrambi in attesa sorridente. Bofonchio qualcosa di affermativo e ritorno alle vongole. Per un attimo li odio e mi pento di averla seguita nella folla ma credo di mascherarlo bene, voglio tornare a casa. Ci avviamo lungo il tratto di strada che abbiamo in comune per tornare e lei comincia a parlare. Mi racconta di Saro, della sua vita difficile in un ambiente povero e duro, della sua forza d’animo, della loro amicizia. È strano, Afra riesce a cambiare l’immagine di Saro che mi sono fatta mentre ne parla. Ora davvero non so più se sento invidia o gelosia, vedo un mite e bellissimo uomo accanto a lei, la mia piovra sprofonda sempre più, forse è sparita. Magari. Comincio a raccontarle di me e Luca, comincio a mostrarle il fianco dei miei pensieri confusi e lei mi sta ad ascoltare. Mi fa così bene essere sicura che qualcuno mi stia realmente a sentire che divento una valanga ma Afra non sembra seccata, anzi, più le parlo e più sembra concentrarsi su quello che le dico. Mi interrompo a malincuore quando arriviamo al bivio che ci separa. Afra mi chiede se ho da fare o se mi va di seguirla nelle sue tappe mattutine prima di tornare a casa e magari di restare a pranzo da lei. Io sto per dire di sì ma poi non posso fare a meno di pensare che l’ho spiata in una delle sue intime “tappe mattutine”. Ho rovinato tutto, non potrei continuare a nascondere la piovra. Sto quasi per rifiutare e dare l’arrivederci al giorno dopo che lei mi fa ammiccante: «Guarda che Saro mi ha dato due pesci…». Penso all’igloo vuoto di tufo che mi aspetta, al frigo che odora vuoto anche pieno, mi faccio forza, spingo giù la piovra a calci e accetto l’invito. Ci incamminiamo, la mia valanga riparte e mentre parlo non posso fare a meno di gettare ogni tanto lo sguardo sui suoi piedi ancora nudi, immersi nella polvere bianca della strada , sono infarinati, la base sembra nera, le unghie non si distinguono, immagino anche che stia soffrendo il bollore del selciato. Ormai il sole picchia, e se becca un chiodo o un pezzo di vetro? Mi sento confortata, egoisticamente protetta guardando le mie scarpe da ginnastica. Afra interrompe la mia valanga deviando il percorso e lasciando d’un tratto la strada. Procediamo in un campo di erba piatta e rossiccia e io le chiedo se è una scorciatoia. Lei mi fa: «Hai visto quel fiumiciattolo che sfocia in spiaggia? Vieni, ti faccio vedere una cosa.». Dopo un po’ il campo che attraversiamo comincia a discendere, prima dolcemente, poi bruscamente verso un costone di roccia, la discesa si fa sempre più ripida e alla fine, calandoci tra sassi ed evitando spine, entriamo in una piccola grotta che sembrava nascosta dai cespugli. Ho un po’ paura e non riesco a staccare gli occhi dai piedi di Afra che invece sembra tranquillissima e, finalmente, si ferma e tira fuori dalla sacca un paio di sandali di pezza. Li infila e proseguiamo per una breve discesa franosa di ciottoli e schegge di roccia. Il fiumiciattolo che arriva in spiaggia, in realtà è sotterraneo. La grotta è una falsa grotta perché dal lato opposto penetra la luce attraverso un apertura tra le rocce e lo spettacolo è fantastico. Sembra un ruscello di montagna che appare per qualche metro e poi si inabissa di nuovo nelle viscere della terra, lo avevo già visto sulle montagne del nord ma qui al sud proprio non me lo aspettavo. Afra si siede su un masso, sfila i sandali e immerge i piedi nell’acqua invitandomi a fare altrettanto. Io eseguo ma fino a un certo punto. L’acqua è talmente ghiacciata che non riesco a tenere neanche la punta delle dita dentro. Provo a immergerli di scatto e mi sale una fitta dolorosa fino in testa. Lei mi consiglia di bagnarmi la nuca ed immergerli per poco ogni tanto, per abituarmi poco alla volta. Io sbalordita le chiedo: «Ma come fai?». Lei mi fa ridendo: «Mi hai fatto la stessa domanda giù in spiaggia, solo che era muta! A-bi-tu-di-ne! I miei piedi sono abituati, non metto quasi mai scarpe l’estate o quando fa abbastanza caldo e neanche in casa. I miei piedi sono sensibili quanto lo sono le mie mani, prova a mettere le mani in quest’acqua e vedrai che riuscirai a tenercele.» Ci osserviamo i piedi a vicenda. Finalmente riesco a vedere bene i suoi. Sono perfetti, riesco a vederne le unghie che sembrano madreperla, a parte qualche piccolo taglietto qua e là fanno sicuramente migliore figura dei miei. Afra mi fa: «Hai un inizio di onicomicosi.». «Onicoche?» Dico io. «Onicomicosi, un fungo delle unghie. Vedi quel colore giallognolo giusto all’inizio? Devi tenere i tuoi piedi più all’aria se vuoi che siano sani. Sei tu che li tratti male, non io. Perché ti snobbi i piedi? Sei nordista con il tuo corpo? ». Afra continua: «Hai mai pensato che, se l’Italia ha la forma di uno stivale ed il sud sembra il suo piede, è sempre, per andarci leggeri, stato poco ben considerato questo piede? Diciamo che governi e governatori hanno da sempre teso a dimenticarselo questo sud o a ricordarselo solo quando gli faceva più comodo. Ma senza i piedi cosa saremmo?». A queste parole mi viene spontaneo un collegamento e le faccio: «Quindi secondo te, l’onicomicosi, rappresenta un po’ le mafie? Il fungo che prolifera umido celato sotto il calzino bianco dei grandi poteri?». Mi viene subito in mente il padrino, comincio a muovere gli alluci semi-giallognoli e ad imitare la voce di Don Vito Corleone, che tra l’altro mi riesce bene: «Devi sempre portare rispetto per le cose della famigghiaaa…… Baciamo le mani Don Ciccio! Minchia Michael! U calzinu sé bucaaaatuuuu!!! La Famigghia Onnecomecoooosiiii a schifìo finiiisce!!!». Le nostre risate risuonano nella grotta. Quando i miei piedi si sono ormai abituati, quindi dopo un bel po’, ripartiamo. Afra mi dice che deve fare la spesa. Non andiamo ad un supermercato ma da una contadina. Si chiama Fernanda, avrà una sessantina d’anni, un fazzoletto colorato le fascia la testa, si vede che anche lei è sveglia già dall’alba ma non certo per passeggiare, è andata a vendere al mercato in città e quando arriviamo è sotto il piccolo portico di uva fragola di una casetta a due piani che deve avere come minimo un centinaio di anni, intenta a sbucciare un pentolone di fagiolini. Lei e Afra cominciano a parlare e io non riesco a capire una sillaba. È dialetto, quello puro, arcaico immagino, ogni tanto però ne azzecco una di parola. Osservo la casa. Sul tetto vedo l’antenna della televisione che stona con le tegole centenarie. A un certo punto capisco che parlano di prezzi e anche di governo. Poi Afra scoppia a ridere di cuore mentre Fernanda sparisce in casa ridacchiando a tratti, come cinicamente. Chiedo subito ad Afra perché ridono e lei, con le lacrime agli occhi, cerca di frenare il riso per spiegarmi ma ci riesce solo dopo un bel pezzo. Finalmente mi spiega che Fernanda si lamentava del fatto che deve vendere i suoi prodotti a prezzi stracciati, che la maggior parte della gente non capisce o non vuol capire la differenza tra un prodotto naturale, con la cura, lo sforzo e la tramandata conoscenza che c’è dietro, ed uno “industriale”. Al mercato tutti fanno storie sui prezzi. Ma Fernanda non pensa che sia colpa della gente, la gente lei la adora perché le permette di vivere, la sente vicina ma secondo lei non è informata. Dice che ai bambini, quando a scuola gli si insegna l’alfabeto, si dovrebbe far vedere «M» di «mela» che va bene, ma la «C» non dovrebbe essere «C» di «cane» o di «casa», ma «C» di «contadino». Fernanda ce l’ha a morte con i politici. «I politici giocano con le vite». La frase oggetto delle risate che, dice Afra, in dialetto fa tutto un altro effetto è: «I politici? Io li legherei tutti uno dietro l’altro per le mani con una lunga corda dietra a un treno e gli direi: Andate, andate….quando siete stanchi vi fermate.» Quando Fernanda riappare sulla porta, ha in mano un cesto con uova ed insalata e vedendomi ridere di pancia sfodera un largo sorriso a denti di rastrello, poggia il cesto sulla tavola, mi viene vicino e sussurrandomi qualcosa che non capisco mi fa una gran carezza su una guancia. La sua mano è come carta vetrata sul mio viso, è calda e odora di terra e sudore. Ho l’impressione di continuare a sentirla anche dopo un po’ che l’ha ritratta. Salutiamo e ci incamminiamo continuando a parlare di Fernanda. La casa è un incanto, su un piano, tutta in pietra e bianca di calce, con archi e particolari che mi dice siano stati aggiunti nel tempo da lei con l’aiuto di Saro ed altri amici. Il giardino è molto più curato di quanto potessi capire con il telescopio e la parte dietro la casa, quella che non potevo vedere è ancora più bella. È la zona festa, mi dice Afra, è un prato su cui, in diversi punti, sono sistemate rocce a formare tavolini, sedute, incavi con piante grasse e nicchie per proteggere le candele dal vento. Afra mi dice che Saro quando viene a trovarla porta sempre con se: il suo cane Xilù, mazzetta, scalpelli e che non fa altro che scolpire le rocce nel giardino, al punto che lei è preoccupata del giorno in cui non rimarrà più niente di abbastanza grande da scolpire. Dice che giorni fa hanno avuto un’accesa discussione perché lui voleva cominciare a scolpire dei posacenere e lei cercava invano di convincerlo che i posacenere devono poter essere svuotati. «Adesso cuciniamo!» dice mettendomi in mano una fascina di legna, fogli di giornale, fiammiferi ed indicandomi il barbecue rigorosamente scavato in una roccia da Saro. Riesco incredibilmente ad accendere il fuoco. Deve essere la legna secca. Un attimo dopo mi porta i due pesci che ha pulito. Mentre il barbecue sfrigola e il profumo comincia a diffondersi, parte una musica. «Nina Simone», sento citare Afra dalla finestra. Rigiro i pesci e faccio un giro in giardino, vedo il crop circle di rosmarino e ci entro. D’un tratto mi sento depressa, volgo lo sguardo alla collina, il mio segreto appostamento e mi sento una traditrice. Vorrei fare a pezzi la piovra con un machete e buttarla sul barbecue, mi giro e c’è Afra con una coppetta in mano che mi guarda ma io non riesco a frenare le lacrime, sarà quella musica. La guardo piangendo e le chiedo cos’è quella canzone. «Si chiama “He needs me”, ma che cos’hai?». «Mi fa piangere.» le dico. Lei poggia la coppetta e mi cinge le spalle con un braccio raccontandomi che Saro, quando ha bevuto un po’, anche lui si mette a piangere ascoltando Nina Simone e che Xilù, per una sorta di empatia con il padrone, lo segue con ululati strazianti. A lei, regolarmente, tocca precipitarsi in lacrime ma per le risate a cambiare musica. Ricorderò solo più tardi quelle parole perché il contatto del suo braccio sulle mie spalle mi scatena un uragano nel cervello. Mi passa tutto davanti ad una velocità incontrollabile, scoppio in una breve risata e poi di nuovo in pianto e a quel punto non resisto più. La piovra boccheggia alla deriva. Devo dirglielo. Comincio a confidarle tutto, i miei pensieri su di lei, che l’ho spiata con il telescopio di papà e alla fine anche del mio sogno ricorrente. Vomito una sorta di cortometraggio guazzabuglio fatto di piovre, Lockness, igloo, famiglie, nord, sud, fili e aquiloni in bianco e nero. Dopo lo sfogo rimango un attimo con lo sguardo basso aspettando di essere cacciata ma il silenzio dura troppo e allora ho il coraggio di guardarla negli occhi e la sua espressione è diversa da come me l’aspettavo. Rompe il silenzio ordinandomi severa di andare a prendere un rametto di rosmarino. Con le gambe molli eseguo terrorizzata pensando, per un attimo, anche di scappare. Torno al barbecue e trovo Afra con la sua solita marmorea imperturbabilità che mi porge la coppetta e mi fa: «Intingi il rosmarino in questa salsa e spalmala sui pesci. Delicatamente, senza farla cadere sulla brace.». Io comincio mentre Afra rientra in casa e dopo attimi per me terrificanti, torna con due calici di vino bianco e me ne porge uno. Poi tira un gran sospiro e mi si siede vicino mentre continuo a spennellare i pesci con il rosmarino, facendo una fatica immane per evitare che la mano tremula lasci cadere la salsa sulla brace. «Per quel poco che possa conoscerti, io credo che tu sia molto, molto confusa e anche tu sembri esserne sicura. Mi sbaglio?» Io nego-affermo continuando semi-paralizzata a dipingere i due pesci. «Non credo che tu sia attratta dal mio corpo ma dal modo in cui lo vivo, forse sei affascinata dal modo in cui io vivo. Piano con quel rosmarino!!! Delicatamente!!! Dovresti sapere come si fa ormai, no?». Mi fucila e prosegue. «Devi imparare ad amarti, ad amare il tuo corpo senza provarne vergogna se vuoi dare e trarre il piacere nel contatto con un altro essere, che sia un uomo, una donna, un animale, un alieno o chicchessia. Vedi, io penso che quando non si hanno le idee chiare è meglio imparare a stare da soli finché non si abbia almeno una buona sensazione di avercele. Altrimenti si fa un danno a se stessi e soprattutto a chi ti sta vicino, che magari invece le idee chiare ce le ha, o forse no, magari è convinto di averle. In ogni caso gli si crea un danno comunque, non essendo veri e limpidi nell’esternare le proprie emozioni. Tu non mi conosci e in quel barlume di idea che mi sono potuta fare di te, non mi sembri proprio il tipo che si innamora di un corpo, si tappa le orecchie, chiude gli occhi e poi gli salta addosso. Sono onorata che tu abbia il dubbio di avere un attrazione verso di me, ma ti metto subito l’anima in pace: anche se farai chiarezza in te stessa e vorrai confermarmi la tua attrazione, ti dico subito che non sei proprio il mio tipo e soprattutto che devo far crescere più in fretta quella benedetta siepe di rosmarino.» Detto questo ci guardiamo un po’ e scoppiamo: lei a ridere e io a ridere e piangere mentre mi abbraccia. Il pesce è il migliore che non abbia mai mangiato e Afra continua a beccarmi: «Visto che sei portata con il rosmarino?». Passiamo il pomeriggio insieme come fossimo due vecchie amiche. Tra confidenze, risate, pacifici silenzi e discussioni il tempo vola, al punto che dimentico che a casa saranno rientrati da molto e non sanno che fine ho fatto. Io e Afra ci diamo appuntamento in spiaggia per l’indomani. Al cancello stavolta sono io ad abbracciarla forte e lei ridendo mi dice di far piano che la soffoco e che ama le mante ma ha il terrore delle piovre. Ridiamo. Mi giro per tornare a casa e lei mi fa: «Aspetta!». Ritorna e mi da quello che mi deve dare. Quasi mi strappa una lacrima, la bacio su una guancia e vado via. La faccia di Luca, che è il primo a casa a vedermi arrivare, sembra quella di qualcuno che sta avvistando un UFO. Quando sono abbastanza vicina rompe il silenzio dicendomi: «Ma dove cavolo sei stata? Eravamo tutti preoccupatissimi! E le scarpe?». In quel momento mi rendo conto di non averle. Le ho dimenticate da Afra. Luca continua: «Cos’è quel cd? Che cavolo fai con quel ramo di rosmarino? Mi sembri l’otto di spade». Io le rispondo che forse ne avrebbe bisogno anche lui. Lui chiaramente non capisce e mi fissa stupefatto. Buonanotte Luca, domani, con molta calma, finalmente ti lascerò andare, penso mentre mi congedo sfiorandogli un bacio. Il mattino dopo mi sveglio, come sempre all’alba, ma stavolta senza il sogno bianco-nero, senza aquilone e senza filo. Il letto non mi rigurgita. Esco come sempre per andare in spiaggia ma lentamente e senza scarpe. Cammino piano tra macchine appannate, siepi, recinti e finalmente vedo in faccia chi sono i cani che mi abbaiavano. Al tunnel di canne e sabbia però mi viene voglia di correre. Stavolta sono in ritardo, Afra a quest’ora sarà già seduta al chiosco, sorseggiando latte di mandorle ghiacciato e caffè caldo, lo sguardo rilassato sul porticciolo. Esito. Non attraverserò il tunnel stavolta. Torno a casa. Ho troppe cose da sistemare. Partirò oggi. Mi cercherò un lavoro e andrò a vivere da sola. A casa tutti ancora dormono, preparo piano la valigia e prima di chiuderla, appoggio sui vestiti il cd ed il rametto di rosmarino.