Zì Coso e Pe’ de Foco

Secondo classificato al Premio Dragut 2019, sezione racconti.


Se ne stava piantato immobile, fiero e indomito a ricevere in pieno petto quel flusso crescente di luce e suoni. Il sole rimetteva a dormire l’alba rosa oro appena nata sfilandosi cauto, fino a scollarsi con quell’ultimo lembo di fuoco e l’illusione di incendiare la seghettata silhouette di Cerri all’orizzonte. Un sordo boato proveniente dalle lontane cave di marmo perturbò l’aria quieta deformandola e disperdendosi in una miriade di eco, facendo appena tremolare il pelo dell’acqua, così nitida ed immobile da apparire invisibile fino a quell’istante. Le piccole sagome nere dei girini cambiarono elegantemente posizione solleticando pietre candide, fino a fermarsi in perfetta sincronia con le minuscole onde concentriche, appena percettibili in superficie. I Sassi, così era chiamato quel posto incantevole.

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Una tonda conca naturale creata dal rio Cupone dopo un salto di tre metri tra le colline, a un buon tiro di schioppo dai piedi della catena degli Aurunci, in una campagna elegantemente incolta e lussureggiante lungo la vena del torrente. Quel posto, distante dal centro abitato, conservava un’aura magica e misteriosa per i paesani. L’unico abitante, nella sua vecchia casetta di pietre e travi di quercia, era Zì Coso l’eremita. Verso la fine di giugno del 1976, ai Sassi, quella che fino a metà Primavera poteva ben dirsi una cascata, adesso, per via delle scarse piogge, non era che un pacioso rivolo che fluiva gorgogliando quasi muto tra due grandi massi verticali. Disteso in tutta la sua anomala lunghezza, Pe’ de Foco attendeva il calore del sole sul più alto dei massi. Con le sue lunghe sfumature di verde, la perfetta livrea dai motivi irriproducibili anche dal più pignolo degli artigiani, la coda lunghissima ed affusolata, era uno splendido esemplare di ramarro. Uno scherzo della natura o meglio, un miracolo, cresciuto notevolmente oltre la media della sua specie in un posto del quale signora Morte pareva, almeno per lui, ancora non avere coordinate. Era il Re temuto e incontrastato di quell’angolo ancora incontaminato di natura, una specie di iguana abbastanza grande da terrorizzare i paesani, pur essendo animale di indole pacifica e riservata: fuggiva via veloce alla presenza umana e il più delle volte era stato avvistato in istanti di dormiveglia. “Piedi di fuoco”, così lo aveva battezzato Zì Coso quella volta che lo aveva sentito sfrecciare rumoroso nel suo campo di fave ormai secche al sole estivo, spezzandone i fusti neri al poderoso passaggio. Si erano infine trovati faccia a faccia: Pe’ de Foco che lo fissava severo e circospetto mentre un paio di steli si inclinavano mestamente ai suoi lati col cigolio di miniature d’alberi abbattuti, lasciandoli in un silenzio rarefatto dal frinire intermittente di cicale. Così, dopo la pausa degna di un film western, Zì Coso aveva sentenziato: “Pe’ de Foco!”. Le cicale si erano zittite, e il rettile, come inorgoglito, aveva levato il capo per poi voltarsi come un fulmine, e ruzzolando tra brevi pause, si era tuffato fragorosamente infrangendo lo specchio d’acqua immacolato.

Zio Cosmo, detto “Coso”, era uno dei contadini deportati dai tedeschi per i lavori forzati durante il periodo della Linea Gustav. Aveva lasciato sua moglie Assunta e quando era tornato, attraversando gran parte dell’Italia tra sentieri battuti o inesistenti e improvvisati nascondigli, lei non c’era più: la scheggia di una granata ne aveva schizzato via l’anima rossa e gioiosa fra le nuvole. La sua “Cerasa” se n’era volata via. Dopo la guerra si era trasformato in una specie di oracolo-curatore, molti vi si recavano per farsi mettere a posto un osso rotto o scappato fuori, ma anche solo per una parola di conforto o consiglio su qualsiasi tipo di questione. Da altri invece era considerato un “coso” strano, ma in fondo tutti gli portavano gran rispetto. Il boato delle cave e il leggero tremolio dell’acqua, avevano sollevato le palpebre a Pe’ de Foco quel tanto da fargli focalizzare il movimento degli appetitosi girini. Si tuffò con gran tonfo e fluendo rapido a colpi di coda in immersione, a bocca ridente e spalancata ne fece buona incetta. Riemerse lentamente soddisfatto e arrampicatosi riprese posizione. Nel frastuono del pasto, i suoi sensi sopraffini non avevano captato, nella galleria di vegetazione che ombreggiava a tratti il rio, la silenziosa presenza di Mario e Ottavio, due ragazzini undicenni, decisi a partire in missione presto quel mattino, per vedere di nascosto il drago misterioso. Mentre Ottavio osservava incantato il maestoso rettile assestare con comodo la sua mole sulla roccia, Mario cercava cauto un grosso sasso con la mano nel ruscello e, presa bene la mira, lo scagliava con tutte le forze verso il povero Pe’ de Foco centrandogli la testa, e quello, dopo un breve scatto disperato, si afflosciava sul posto tremolante. « Che hai fatto???» urlò Ottavio: «Nno sai ca è peccato mortale?!». « Pigliamolo! Gliu portamo ‘bascio gliu paese!» sbraitò Mario eccitato dal suo colpo da manuale. «Ma sì pazzo? Non lo vidi ca se move ancora? E se ce mozzeca?». «Statte zitto e aiutame! Movete!» rispose mentre con un coltellino strappava lunghe foglie di strame da un cespuglio. «Gli legamo la vocca e le cosse!». «No! E se po’ se sceta? I n’ce vengo loco n’goppa!». «Cacasotto! E va bono, n’te move!» gli urlò Mario uscendo allo scoperto e guardando in basso per cercare un altro sasso. Quel fragore insolito aveva però già attirato l’attenzione di Zì Coso che, lasciato il pollaio, era lassù in alto ad osservare la scena con le mani sui fianchi e l’espressione tra sconforto ed amarezza. Mario aveva appena scelto il giusto sasso e si apprestava a finire Pe’ de Foco. «Fermo!» tuonò Zì Coso: «Fermateve! Diavuri ‘shgraziati!». I due ragazzi raggelati lo osservarono in silenzio discendere, sparire tra i cespugli borbottando e riapparire poco dopo sul masso dove il povero animale sembrava addormentato, solo scosso da leggeri scatti involontari delle zampe posteriori. Gli pose la mano sulla testa, poi volse uno sguardo torvo ai due discoli: «Minite subito cca!».

Eseguirono arrampicandosi controvoglia. «Arrecamogliolo alla casa mia!» ordinò Zì Coso. «E se se sceta? Chiglio me strocca ‘na mano! E po’ me fa schifo!» piagnucolò Ottavio. «N’se sceta. E po’ che te fa schifo? Vidi comm’è beglio, vidi che coluri… Dilinquenti! Ate ‘strutto n’opera d’arte della Natura!». Ciò detto afferrò la mano del ragazzo e la pose sul rettile. Ottavio dopo una smorfia di ribrezzo fu affascinato dal contatto. Se lo aspettava ruvido, invece era di un bel velluto liscio e piacevole. Mario non disse nulla, e con un ghigno prese le zampe anteriori di Pe’ de Foco, mentre Zì Coso teneva la testa del ramarro sollevata. Giunti nell’aia lo posero sul muretto accanto al pozzo. Zì Coso tirò su un secchio d’acqua e lo svuotò a tratti sulla testa dell’animale. «È morto?» chiese impaziente Mario. «No! Tu ti’ gli occhi bboni bbìa a prenne la mira!» gli fece secco Zì Coso.
«T’è ragione! Vidi! Sotto la zampa de nnanzi…» fece Ottavio. A tratti il torace del rettile si gonfiava debolmente. «Ma statte zitto cacasotto!» gli rispose Mario: «Mò che more gliu portamo bascio gliu paese.». Zì Coso lo seccò con uno sguardo: «Va dento casa, e portame gli stracci!». Mario si allontanò seccato. Passarono la mattinata a cercare di risvegliare l’animale che non dava segni di ripresa. Zì coso gli avvolgeva la testa con uno straccio imbevuto d’acqua, che gli cambiava di tanto in tanto. A vederlo così, Mario esplose in una risata dicendo: «Co’ ‘ssa pezza nera n’capo me pare Zi’ Cuncetta quanno va alla messa!». Scoppiarono a ridere tutti e tre, ma Zi’ Coso tornò subito serio e colmo di freddezza: «Mo magnamo, che è ora, e vui ve state cca fino a che non se ripiglia, e se non se ripiglia…Va’ a piglia’ sei pummarole grosse, e nu cico de vasilico. Movete.» ordinò severo a Mario. «Otta’, vacce tu.» disse Mario strafottente neanche guardando l’amico. «None. Ce va Mario. Movete t’aggio dittu.». Mario si voltò furioso verso l’orto scalciando ciottoli. Mentre mangiavano… «L’hai fatto pecché isso è libero, e tu no. Vidi la ‘nvidia, come te se roseca.» disse il vecchio prima di dare un morso alla panzanella. «E che significa?» sbottò isterico il ragazzo: «Si pazzo! Isso è ‘n’agnimale, io songo nn’ome, e pozzo fa’ chello che me pare!». «Addavero?» proseguì placido Zi’ Coso: «Hai vistu quanno t’aggio ‘rdinato de fa’ le cose come stivi? Nn’è accussì che pure pateto fa co’ te? E se tu nno fai, nn’è vero che po’ t’allucca e te vatte malamente? Tutti gli santi iorni? N’cè pe chesso che alla scola già si stato bocciato?». «La scola n’serve a gnente, ine voglio bbia ghì a fatica’.» balbettò Mario. «Tu sotto padrone? Co’ ‘sta coccia no’ duri manco n’ora. Pe’ ciò a Pe’ de Foco gliu vulivi arreca’ bascio gliu paese, e magari faregliu muri’ dento ‘na gabbia, pecché n’te piace che isso nno vive dento ‘na gabbia come te. Ecco pecché tu sì fraceco dento, e ‘nu iorno chelle sbarre ca te purti dento ‘sciranno fore, e saranno chelle de ‘na prigione.». Mario si alzò di scatto gettando con sprezzo il resto del suo pranzo alle galline, e se ne andò scalciando polvere giù verso il rio.

«Zì Co’, i’ n’vece avesse tornà alla casa, sennò mammema chi la sente?» mormorò Ottavio guardando l’amico allontanarsi. «E n’vece ve state cca’, se no so’ cavoli vosti, e isso t’è ragione a chiamarete cacasotto. E se capisce pure pecché site gli meglio amici: isso ha trovato uno che po’ cencecheà, come gliu pate fa co’ isso, e tu co isso c’hai trovato gliu pate ca non tì, pecché se n’è fuito, e v’ha lassati suli a te e mammeta. Che site begli tutti e dui, tu e chigl’ato agnimale… dui pori diavuri scincicati.» terminò ridacchiando Zì Coso, facendo arrossire Ottavio che scattato in piedi e afferrato il piatto lo puntava minaccioso: «Non te permette cchiù de nomena’ a patemo!». «Che vo fa’ co’ ssu piatto, gliu vo tira’ a me o a isso?» mormorò il vecchio indicando Pe’ de Foco: «Forza, tira, tanto semo vecchi tutti e dui, accussì agliu creatore ce vado ‘n compagnia.» rispose voltandogli le spalle. Ottavio dopo un brivido tornò del suo colore, e posando il piatto si lasciò sedere. Zì Coso si sdraiò per la sua pennichella all’ombra del grande gelso bianco che sovrastava l’aia, e prima di chiudere gli occhi mormorò: «Otta’, tu si nu bravo uaglione, e sotto sotto pure Mario, ma tu n’ta fa’ tratta’ accussì da isso, fa male a te, e fa male pure a isso. Mo m’addormo nu poco, tu ogni tanto mitti na pezza bagnata n’capo a gliu poro Pe’ de Foco.». Zì Coso sonnecchiava ancora quando Ottavio vide spuntare la testa dell’amico che risaliva. Aveva un bastone. «Che vo’ fa co’ ‘ssa mazza?» chiese Ottavio preoccupato. «Mitti n’ata pezza n’capo a chella bestia, accussì Zì Coso non sente la botta. Mo gl’accido e po’ sitti sitti ce ne iamo, e gliu arrecamo bascio.». «No!» fece Ottavio alzandosi risoluto e puntando una mano verso l’amico. «Che t’ha raccontato chigliu vecchio ‘ncritinito! Levete cacasotto, ca sennò sta mazza te la scasso n’capo!» gli intimò Mario. L’altro gli si avventò addosso e cominciarono a rotolare avvinghiati sull’aia svegliando il vecchio: «Fermi! Diavuri ‘mpestati! Guardate!». Un raggio di sole filtrava dal gelso illuminando la testa di Pe’ de Foco, che aveva un occhio fisso su Zì Coso. Fissarono muti l’occhio gelido del rettile come fosse un buco nero, finché non richiuse lentamente la palpebra. «M’ha parlato!» gridò Zì Coso con lo sguardo bocconi. «M’ha parlato…vo esse portato a gliu mare!» continuò in un sussurro, come ipnotizzato.
Mario si alzò di scatto scrollandosi l’amico di dosso: «Pe’ la matina Zi’ Co’, te sì finito de ‘mpazzi’! E come t’ha parlato? Co’ la coda? E che t’ha detto? Che gli fa male la coccia? E po’ che ne po’ sape’ de gliu mare se non gliu ha mai visto?». «’Mbicigli, non lo sintite gliu vento che ve’ da mare tutti gli iorni? Isso gliu addora, lo sape meglio de vui comm’è gliu mare, è na creatura magica, e se more, vidite gli guai che passate!». A quelle parole i due monelli iniziarono a piangere dal troppo ridere, mentre Zì Coso si alzava e cambiava l’ennesima pezza umida. Quando i due si zittirono, li fissò gelido: «Vui dui mò m’aiutate a caccia’ la moto e a vede’ se parte, po’ ve ne potete pure ghì a fanculo. Quanno scura me gliu carico ‘rreto e gliu porto a mare.». I due rimasero a fissarlo muti e sbigottiti. «Chisso è ‘mpazzuto…» mormorò Ottavio. «Diteme ‘n’ata vota ca so’ pazzo e ve giuro ca ve faccio vola’ dento agli Sassi. E so’ cavugli gli vosti se fate parola de ‘sta storia.». Tirarono fuori la Bianchina dalla stalla e la ripulirono.

Dopo vari tentativi, con qualche colpo di tosse e una gran fumata nera la vecchia mono cilindro resuscitò. I ragazzi si avviarono muti verso il paese, voltandosi ogni tanto a guardare quella scena bizzarra: un lucertolone con una pezza in testa, la vecchia moto che copriva il frinire di cicale con il suo rombo scatarrante, e Zi’ coso che frenetico entrava e usciva di casa senza altro motivo che scervellarsi su come avrebbe potuto evitare di essere notato dai paesani o chiunque durante il viaggio, sia perché Pe’ de Foco avrebbe fatto una brutta fine, che per non diventare definitivamente lo zimbello del villaggio. Il sole era quasi dietro i monti quando Zì Coso iniziava a vestire Pe’ de Foco con una camicetta bianca della defunta moglie. Scucì un suo paio di pantaloni neri per simulare una gonna lunga che avrebbe fissato a due bastoni già legati ai fianchi della moto, e alle cui estremità aveva messo due scarpette da festa della sua compianta. Legò la testa con un fazzolettone a fiori, in modo che si intravedessero appena gli occhi dell’animale tramortito. Cercò di arrotolare il più possibile la lunghissima coda che infilò in un sacco. Si caricò quel fagotto addobbato sulla schiena, lo ancorò a sé con delle bretelle, salì cauto sulla moto, levò il cavalletto e si avviò incerto e zigzagante giù per la collina. A metà strada dal paese, seduti su un ponte, Mario e Ottavio sentirono avvicinarsi il rombo, e quando videro passare Zì Coso con quella spaventapasseri dietro, per poco non caddero di sotto dal ridere. Quando si ripresero il rombo era lontano, «Iamo a piglia’ la vespa de patemo.» scandì serio Mario, lo sguardo fisso nel vuoto. «Che? Chigliu pateto è la vota bbona che t’accire!». «Otta’… me simbri mammeta! Facemo accussì, se tu no vo’ mini’, i ce vado solo, e alla casa stasera n’ce torno. Chigliu patemo verrà subbito alla casa tia, e tu gli a dice chesso: “Ha detto accussì Mario che se torna alla casa e tu gli mitti le mani n’goglio, è meglio ca gliu accidi, tanto no gliu vidi cchiù lo stesso.”», diede uno schiaffetto all’amico prima di correre via, e quello dopo un attimo di esitazione gli si lanciò all’inseguimento. Nel frattempo Zì Coso era giunto in paese, il punto critico era il bar, con gli astanti ai tavolini intenti nelle sfide a “passatella”, un gioco fatto di carte e sonore bevute di birra. Zì Coso confidò che fossero già abbastanza brilli e diede gas alla moto, ma fu proprio il rombo ad attirare attenzione, e la velocità non sufficiente da passare inosservato.
«Ohohohooo!!! Vidi zì Coso comme scappa! Addo te ne vai co’ ‘ssa bellella Zì Co’!», «Ne Zì Co’? Addo’ te la si sposata a ‘ssa bella pacchianella? Pe’ la matina e che popò che tene!», e giù così tra fischi e grasse risate. In effetti il sacco con la coda acciambellata era vistosamente voluminoso rispetto alla sottile silhouette della donzella misteriosa, ma il trucco funzionò, smuovendo la routine di quella ciurmaglia, che passò il resto della serata tra battute e congetture.

Era fatta. Ora doveva solo arrivare al porticciolo di Gianola prima che facesse buio. Sulla superstrada sussultò scorgendo da lontano l’Alfetta dei carabinieri appostata. Decelerò di istinto, attirando allo specchietto retrovisore l’occhio del brigadiere Allolito, che fece all’appuntato: «Ginu’, ferma a questo, e se non tiene niente ‘e che, prendi nome, targa e andiamo, questo è l’ultimo, t’aspetto in macchina, mi fa male la capa, ho preso troppo sole.». Scattò la paletta. «Oi mama… e mò?» disse tra i denti Zi’ Coso. «Scendete e favorite la patente.». «Aggiate pacienza, non pozzo scegnere, la mia signora sta a durmi’, no sta bono, la porto alla casa.». «Favorite la patente.». «Non la pozzo prendere, sta sotto gliu sedile e come v’aggio pregato, no vurria sceta’ muglierema.». L’appuntato quasi non sentì il vecchio, tanto era preso ad osservare le singolari forme e l’aspetto della signora. «Aspettate qua.» disse staccandole gli occhi con un brivido. «Brigadie’! Dovete venire! Ci sta un vecchio, dice che non vuole scendere per non svegliare la moglie e non vuole dare la patente, ma la cosa strana non è questa, è la moglie Brigadie’! Dovete vedere! Tiene un fazzoletto in testa, si vedono gli occhi chiusi, e come so’ brutti! E terrà ‘nu naso che manco Puricinella! La pelle pare verde! È una femmina secca come il palo del telefono, ma tiene un… perdonate Brigadie’, tiene uno strano culo sconfinato! E pare che c’ha pure una gamba di legno!». «Ginu’, ma niente niente tutto ‘stu sole a me m’ha grigliato ‘e recchie e a te t’ha bollito chell’i poche ‘e cerevella che tieni? Maronna mia…». Mentre Allolito sbuffando si accingeva ad uscire dall’auto, coperta dal rombo della Bianchina arrivava a tutta velocità una Vespa. « Pigliaci la paletta!!!». Ottavio, seduto dietro, ad occhi chiusi sconfisse la paura. Allungò il braccio destro e sfilò la paletta all’appuntato, mentre Mario emetteva un grido degno di Cavallo Pazzo, per poi strillare, «Mitti ‘ssa paletta n’goppa alla targa! Movete! Cacas… Pe’ la matina! Allora mò n’te pozzo cchiù chiama’ cacasotto!». Si infilarono in una traversa con lacrime miste di vento e risate, mentre sentivano la sirena e la sgommata dell’Alfetta.
Zì Coso ripartì con il sorriso e un flusso caldo al cuore. Arrivò al porticciolo alle ultime luci del tramonto. I due “diavuri” erano già lì, e lo aiutarono a trasportare Pe’ de Foco fino al molo. Tolsero i vestiti al rettile e si sedettero vicini con le gambe ciondoloni sull’acqua. Zì Coso ne teneva la testa appoggiata sopra le cosce e i due ragazzi il resto del corpo sulle loro. Rimasero in silenzio a guardare la luce sfumare. Ottavio non fece in tempo a chiedere «Respira ancor..», che il ramarro scattò fulmineo verso mare in un tuffo che li bagnò da capo a piedi, ferendo con i rostri la coscia di Mario, strappandogli i jeans in righe parallele come sbarre, e frustando sonoramente con la coda la fronte di Ottavio. Lo guardarono muti prendere sinuoso il largo. Una lacrima dagli occhi di Mario cadde a diluirgli il sangue sulla coscia, ma lui non piangeva più per il dolore fisico ormai da tempo, era quella strana scena di libertà a farlo crollare. «Ahi..», mormorò Ottavio toccandosi la fronte. «Iammocenne.» fece Zì Coso con un largo sorriso di occhi umidi, che tre giorni dopo erano chiusi e secchi, sotto il gelso, durante la sua pennichella pomeridiana.

Li riaprì così di scatto che restò abbagliato dalla luce e dal frinire immenso di cicale, nel quale aveva distinto il fragore famigliare di un tuffo. Attese con gli occhi spalancati un grido o qualche altro rumore a sconfessare quell’ibrido tra dubbio e speranza, ma fu silenzio, e li richiuse in un crescente ridacchiare. Il valoroso Pe’ de Foco, dopo un bel giro nella baia, aveva risalito il fiume Capodacqua dalla foce fino ai piedi dei monti, poi da lì fino a casa. Per tre giorni aveva seminato nuove incredibili leggende, apparendo e scomparendo tra occasionali grida di vecchi e bambini, riuscendo anche ad assaggiare una vecchia trota, ma preferiva di gran lunga i suoi grassocci girini dei Sassi, eleganti sulle pietre candide, appena smossi all’alba dalle mine delle cave di marmo di Coreno.

Cosc(i)enza

Il lungo epilogo iniziò quando due bipedi semi-vegani dotati di coscienza, blateranti lungo un prato circa l’orrore dell’ingrediente cagnolino in ricette cinesi, furono d’un tratto circondati da un pulcino un maiale e un vitello i quali tenendo bastoncini da riporto in bocca e nel becco li fissavano scodinzolanti. I due amici ipnotizzati dalla scena non si stupirono più di tanto quando si palesò un leone profugo di passaggio che, con un fischio al contrario, aspirò il pulcino e ne ruttò in aria una nevicata di piume. Mentre il direttore della giungla digeriva il pulcino sbucciando il vitello e sbocconcellando il maiale vivi, i nostri due impietriti cercavano sudando di telepatizzarsi cosa fare, finchè leo non decise con un balzo di assaggiarne uno. L’altro fuggì urlando e piangendo ma erano lacrime da coccodrillo vegano perché aveva forti dubbi che l’amico lo tradisse da mesi con sua moglie mangiando porchetta. Dopo il lutto per l’amico il sopravvissuto si vantò ripetutamente su feisbuk dell’incredibile avventura che diventò virale e viralmente tutti cominciarono a nutrirsi solo di nomi piante fiori e frutta finché un giorno, a seguito di un errore T9 nel settore comunicazioni della Monsanto, si diffuse sui social il sospetto che il mondo vegetale non vegetasse ma provasse il dolore, e qualcuno ipotizzò anche sentimenti. Da lì, si ramificò la moda di carezzare la flora e la fauna cibandosi esclusivamente dei loro frutti finché, per via della bufala N1H2.0, si insinuò la credenza che i micro organismi fossero dotati anch’essi d’anima, e già c’era chi non riusciva più a dormire bene, per l’ansia di soffocare acari schiattandoli sul materasso o essere convinti di sentire voci esagitate di una class action nella flora intestinale organizzata per provocargli un cancro.
Ormai c’era chi fuggiva terrorizzato da un torsolo di mela scovato dietro al frigo o un fossile di pollo ritrovato alla fine dell’ultima era glaciale nel frizer.
Dopo aver smesso di mangiare plastica pensando di fare al contempo un servizio al pianeta ma accorgendosi presto d’essere intolleranti al polilattosio, alcuni cominciarono a darsi colpe e divorarsi l’un l’altro finché stremati non si lasciarono decomporre sorridenti, mentre corvi, cicale, batteri e pantecane se ne banchettavano allegramente.
Nel frattempo al C.O.C., l’ufficio del Creatore di Ogni Cosa, la segretaria chiedeva:
– Come si chiama quell’errore che abbiamo estinto?
– Umani.
– Virus utilizzati?
– Social e Coscenza, con la i, come Social.

Silent night

Con questo racconto ho partecipato all’edizione 2018 del concorso letterario “Il Bicicletterario”, premiato con “menzione antologica speciale”.
Ringrazio il Bicicletterario per il premio.

Il rumore della ruota posteriore di una bicicletta in corsa, a pedali fermi, non ha un nome. C’è chi lo chiama “ticchettio” ma non rende, perché è un rumore continuo, non è intermittente come il ticchettio di una vecchia macchina da scrivere.
Lo battezzai il giorno che smontasti il mozzo di una vecchia ruota, per farmi vedere cos’era a generarlo. Con le dita nere di grasso mostrasti quel cilindro con i suoi magici cricchetti: Erano loro i minuscoli lavoratori che davano vita a quel cicaleccio, come il frinire senza fine di un grillo infartato sulla stessa nota.
Battezzai quindi “cricchettio”, quel suono incantevole, calmante, accordato con l’aroma del lungomare soleggiato e senza vento, appena dopo pranzo.
Quello della tua bici, in risonanza col telaio, dava una nota che riuscivo a percepire: Un LA preciso a 440 Hertz. Per molti un rumore anonimo, privo di colore.

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Col tempo mi scoprii capace nel distinguere le note di ogni bici, ognuna celava la sua. Io nato muto e tu di rare parole.
Il tuo un arbitrario mutismo selettivo, il mio invece ancora indefinito.
Del mio silenzio nessuno si dannava più di quanto non si vergognasse, dando per scontata la tara di famiglia che prima o poi avrei platealmente frantumato.
Tale il nonno, così il nipote. In sostanza per gli altri era tutta colpa tua, di un vecchio pescatore in pensione ostinato e taciturno, il mio unico amico.
Cos’è un amico se non chi ti regala il tempo senza che sia un dono.
La mia anomalia mi avvolgeva in una solitudine frustrante, nessuno che allungasse la mano per raccogliere il filo della mia sudata comunicazione fatta di espressioni, e gesti. Ero uno strano, ed è strano come riuscissero a farmi sentire d’essere un violento, senza che lo fossi mai. La quarantena dell’anomalo.
Mi raccontasti che quando nacqui sembrò la scena di un presepe.
Venni alla luce sotto Natale, senza piangere. Tutti erano attoniti, ammutoliti come pastorelli imbarazzati nel presepe di una “sailen nait”.
Tu e quell’inglese tutto tuo, metabolizzato ascoltando battibecchi di americani.
Fu uno di quei militari della base che sfornò il tuo soprannome. Quegli smargiassi yankee impiastravano la lingua nei colori del dialetto per inventare vocaboli mutanti, catturando divertiti parole sfarfallanti nel tran tran del porto.
“Shark’tiello”. Squaletto. Non era la nominata del pesce predatore ad aver ispirato l’invenzione del nomignolo, ma di sicuro il tuo modo di apparire all’improvviso, taciturno, con quella fila di denti bianchi che sorprendeva chi incontravi. Io per te ero “Gizs”, Jesus. Ho sempre pensato che mi chiamavi così per non scomporre il tuo sorriso.
Avevo tre anni quando costruisti un seggiolino di legno e lo montasti al manubrio della bici, per portarmi a prendere aria al porto e riportarmi a casa dopo l’asilo.
Almeno una volta davi tre colpi di pedale accompagnandoli con le prime tre note di “Sailen nait”: “Sa-i-len…”. Poi facevi una pausa aspettando che io cantassi “nait”.
In quella pausa la ruota emetteva il cricchettio che per me veniva dalla fila dei tuoi denti, in bilico tra burlesco e speranzoso, ma sapevi bene che mi cantavo dentro, che sentivo i suoni nei rumori e nelle cose.
“Uno…due…tre colpi di pedale, per gli altri ero un diverso, per te solo speciale.”
Mi nutrivi in silenzio di ritmi ed armonie. Continuo a chiedermi dove li avessi presi, forse dal mare, dallo sciabordio contro il tuo gozzo, dal cigolio regolare degli scalmi, dalle crome plananti dei gabbiani, dal blues inconsapevole degli americani.
Poi fu il giorno della mia prima bicicletta, ero pesante ormai per le tue gambe.
Il negoziante ci osservava stupito: Il nonno sollevare le bici una ad una, il nipote dare un colpo di pedale e lasciar andare la ruota per ascoltarne il rumore, la giusta nota. Avrebbe mai immaginato che avremmo scelto la bici soprattutto per il suono?
La scegliemmo bianca, anonima, ma era un tondo Do diesis 554 Hertz.
Adesso, insieme sul lungomare, le nostre bici in corsa cricchettavano all’unisono un intervallo di terza maggiore. A tratti intonavi il tuo repertorio ed anche Sailen nait ci stava su benissimo, io però continuavo a non cantarne la fine, e infine cadde il giorno in cui le tue gambe decisero che si era fatto tardi.
Era inizio estate. Mi incaponivo a restare seduto accanto al letto e tu mi spingevi ad uscire ed allenarmi per la gara delle dune. La gara di bici che si teneva ogni anno alla prima luna piena di agosto, come da tradizione, tra i tanti sentieri che discendevano tra isolotti di cespugli dalla collina verso mare, sopra la terra battuta che man mano, avvicinandosi alla spiaggia, perdeva la sua lotta con la sabbia. Non è facile correre in bici sulla sabbia, illuminati solo dalla luna o da qualche torcia del pubblico incitante. Bisogna intuire dove è più compatta, per non affossare e cadere.
Fu allora che mi parlasti della bici fantasma. Mi raccontavi che da ragazzino avevi vinto gare grazie a lei, chiudendo gli occhi per seguirne il suono ti aveva guidato per i giusti sentieri fino in spiaggia e alla vittoria.
La sognai bianca sgraffiare intermittente la pelle della notte, oppure grigia e gelida tratteggiare il lungomare nella luce incerta dei lampioni, in una notte di mare grosso, pioggia e vento uniti sferzare diagonali.
Avrei voluto vederla in equilibrio, senza conducente, ondeggiare con i pedali spinti dall’invisibile senza fermare la pedalata lasciando spazio al cricchettio. Non riuscivo a immaginarne il cricchettio. Qual era la nota? Non me lo dicesti. Dicevi che se me l’avessi rivelata non l’avrei sentita, ed io alla fine non ci credevo, indeciso se amare od odiare quel tuo modo di trascinarmi fino all’apice del serio per disorientarmi in un soffio, rivelandomi d’improvviso che tutto porta in sé la friabilità del castello di sabbia.
La luna piena imbiancava la notte di Ferragosto. Da giorni parlavi a fatica e comunicavamo solo a gesti, i tuoi sempre più deboli, i miei sempre impazienti.
Mi trascinarono via per lasciarti riposare, ma il tuo sguardo prima di lasciarti e andare alla gara fu come un passaggio di testimone alla staffetta.
Ai piedi della collina era tutto color luna.
Era una sailen nait, tranne il rumore di bici e schiamazzi di sostenitori sparsi, alcuni tremolanti al centro del cerchio arancione delle loro torce. La partenza era cento metri dall’inizio del labirinto che, per quanto chiunque potesse conoscerlo, nella semioscurità celava sorprese. Nei cento metri ognuno aveva il tempo di decidere il sentiero in cui tuffarsi a capofitto e raggiungere la spiaggia per primo.
Al via mi trovai dietro al più veloce, imboccammo lo stesso sentiero e a metà percorso, quando ancora non avevo avuto la tentazione di chiudere gli occhi e sapere se esistesse davvero la bici fantasma, lo feci per forza.
Presi in faccia un tentacolo di rovi tuffandomi nella sabbia ancora calda del giorno rovente e sentii quella nota. Distinta dalle ruote degli altri corridori. Un LA 440 Hertz, proprio come la tua bici.
Ad occhi chiusi non mi rialzai. Sentii il sapore della sabbia, sputai via.
Mi piace pensare che ruppi il silenzio cantando “nait”.
Mi ritrovai in mano un rametto di legno sabbiato. Una staffetta infinita, la vita.
“Voglio una bici per tagliare il vento tra i sentieri e la tua mano calda sulla fronte per calmare i miei pensieri”.

Senza freni

Con questo racconto ho partecipato all’edizione 2016 del concorso letterario “Il Bicicletterario”, conseguendo una menzione speciale e ricevendo in premio una targa dall’associazione culturale AQuadro.
Ringrazio l’associazione e il Bicicletterario per il premio e per questa opportunità.

Quel giorno gli serviva una bella scossa. Pensò quindi di prendere via Ortale, la stradina ripidissima congiungente le due strade parallele che da casa scendevano fin giù al paese e a scuola. Amava farla in picchiata, a “palla di cannone”, c’era visibilità fino all’incrocio con l’altra strada e non c’erano traverse.
La imboccò e come faceva a volte, nei pochi secondi impiegati a percorrerla, cominciò a pensare a quel nome: “Ortale”, fantasticando che in passato qualcuno come lui, in bicicletta, avesse perso i freni e ci fosse rimasto secco. Da qui il nome via Mortale addolcito in Ortale dai paesani negli anni, come a voler liberare dalla sventurosa condanna il fantasma pedalante di quel povero sfortunato che, sicuramente come faceva anche lui, tirava i freni solo alla fine, calcolando esattamente il tempo per fermarsi all’incrocio e allungare così al massimo il precedente momento d’ebbrezza, quel vento che ti frusta i capelli, ti allarga le maniche, si infila nei pantaloni solleticandoti le gambe e che se apri la bocca gonfia le guance come un palloncino sballottandole a destra e a sinistra, con esilarante rutto finale liberatorio d’aria appena ingurgitata.

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Cominciò a pedalare forte per lanciarsi alla conquista di un nuovo record. Dieci metri, venti, vento che aumenta, anche Benevento prima si chiamava Maleventum. Pensava a quanti nomi mutati conoscesse, ancora ignaro che quel giorno sarebbe toccata a lui, e per davvero.
– Ciao Ciclotauro! – gli aveva detto sua madre sorridendo prima di vederlo uscire di casa dopo colazione, i libri in una mano e l’elastico nell’altra. L’aveva guardato correre fino alla porta tutto cosce, spalle strette, scapole alate, braccia lunghe ed esili.
Forse era meglio “Ciclosauro” aveva pensato, sì, una specie di cucciolo di T-Rex, vista la sproporzione cosce-braccia ma erbivoro, la preoccupavano un po’ la sua timidezza e quell’introversione. In paese era pieno di bulli e loro erano lì da poco, venuti dalla città per vivere in campagna, ma in fondo Ciclosauro aveva solo dodici anni e tutto il tempo di farsi muso ed ossa dure. Si era ricordata di non avergli dato il fazzoletto pulito. Lui aveva appena finito di fermare i libri al portapacchi della Graziella e stava per montare in sella che lei lo aveva tanato – Ma bene! Ecco che fine fanno i fazzoletti che non trovo più! – Il fazzoletto che aveva usato per legare il parafango posteriore, un giorno che si era sbullonato, era ormai mutato in uno straccetto teso all’impossibile e leopardato dalle pozzanghere. La sua faccia imbarazzata l’aveva fatta scoppiare in una risata disarmante e porgendogli il fazzoletto pulito gli aveva detto – È proprio ora che papà ti prenda una bici nuova, questa è quasi da buttare e ormai è piccola per te. – Salutandola sgommando, era riuscito a sentire solo la coda di un’ultima frase ¬– …bbiamo tagliare quei capelli! – e come sempre non il suo “vai piano!”. Era sfrecciato via sorridente al pensiero di una bici nuova ma fiero della sua Graziella rossa non più ripiegabile perché spaccata al centro e risaldata, piccola vero, con sellino e manubrio tirati su al limite massimo era diventata l’estensione di sé, la sua sicurezza, era capace di andare su una ruota sola per centinaia di metri, anche in curva. L’aveva smontata, rimontata e riverniciata sempre rossa, tante volte, ne conosceva ogni vite e bullone. Ci andava sempre, con il sole ed anche con la pioggia ma non a scuola, perché i suoi, dopo la prima ed unica volta che ci aveva provato sfuggendoli, gli avevano vietato di presentarsi bagnato fradicio davanti alla maestra.
Il sorriso era cominciato a sfumare appena dopo un quarto dei due chilometri che lo separavano dal paese e da quel bullo della terza media, il suo incubo. Il giorno prima quello gli aveva rubato la fionda che nascondeva sempre a metà strada sotto il ponte del ruscello, nel buco di un pilone e che riprendeva tornando da scuola. Il bullo l’aveva seguito in bici di nascosto, lo aveva spiato e poi raggiunto minacciandolo di consegnargli la fionda, altrimenti se la sarebbe presa a suon di botte.
La sua magica fionda, l’ennesima che aveva costruito ma stavolta sentiva di aver raggiunto la perfezione. I materiali sempre gli stessi, camera d’aria rossa di bicicletta per gli elastici, la toppa ritagliata da una scarpa trovata in una delle case vecchie abbandonate dai contadini in fuga dalla guerra. Erano la metà degli anni settanta e anche se i chilometri d’asfalto cominciavano ad insinuarsi vieppiù rapidi nel paesaggio, erano ancora molte le strade sterrate. Nelle case vecchie ancora non diroccate insisteva quello strano odore, una lotta tra odore di camino spento, muffa e polvere di guerra. Vi si trovavano ancora oggetti, a volte anche bauli con lettere, accessori e cianfrusaglie varie, frammenti di vita abbandonati, decisi superflui da un istinto sbrigativo di sopravvivenza. Ritagliando la toppa in quella scarpa orfana si era chiesto a chi poteva essere appartenuta, magari era quella del fantasma di via Ortale. Infine il manico di legno, la parte più importante, fondamentale per la mira ed il lancio precisi.
Lo aveva trovato come un diamante in un cespuglio, anzi lo aveva sentito, come un’incantevole melodia nell’attimo in cui l’aveva messo a fuoco diradando cautamente le armonie di rami ed infine ritagliandone la geometria tra cielo e fiori gialli. Una Y perfetta in chiaro legno di ginestra, così perfetta che aveva impiegato un pomeriggio intero ad intagliare il manico su misura, nel timore di sbagliare e rovinarlo, poi lo aveva decorato pazientemente con il coltellino arroventato, e ora quel bullo voleva appropriarsene. Mai! Sceso dalla bici aveva raccolto un sasso dicendo al bullo che quella fionda non era precisa e mirato il tronco di un cipresso a una ventina di metri lo aveva mancato di proposito.
– Non ci credo. – Aveva sibilato Bullo smontando dalla bici e strappandogli di mano la fionda, – Vediamo… – digrignando e raccogliendo un sasso. Per fortuna Bullo era uno di paese, non di campagna, non era un tiratore esperto. Si era piazzato la toppa davanti alla faccia, la mira non si prende così ma di lato, gli elastici vibranti devono sfiorare l’orecchio, la mira esatta si sente. Unica, tesa e suadente si mostra solo l’attimo che ti scordi di guardare.
Il sasso era passato almeno ad un metro dal tronco, Bullo era rimasto un attimo interdetto e lui ne aveva approfittato – Ne ho un’altra, precisa, dopo mangiato puoi venire a prendertela a casa mia. – Quel maledetto aveva prima esitato e poi l’aveva frustato con la fionda sulla faccia minacciandolo che sarebbe tornato nel primo pomeriggio e se non l’avesse trovato con la fionda buona si sarebbe tenuto quella.
Rientrato a casa e ingoiato fugacemente un boccone, si era messo febbrilmente a costruire la fionda che gli era riuscita la più imprecisa e brutta che non avesse mai fatto, aveva tagliato il primo ramo di mirto decente, legato male gli elastici che avrebbero retto al massimo una dozzina di tiri dopoché sarebbero schioccati sulla faccia del suo oppressore. Dentro sé due forze che fondevano in caos disperato: rabbia e paura. Bullo si era presentato puntuale fuori dal cancello di casa e gli aveva intimato subito di fargli provare quella fionda. Come avrebbe potuto nascondere che stava per rifilargli una schifezza? Poi un lampo: i film western.
Quel suono delle pallottole sulle rocce, quella specie di “sweiiinnnnn” lunghissimo e impressionante. Con un sasso irregolare lanciato sull’asfalto avrebbe potuto simularlo anche con la fionda, l’aveva fatto altre volte. Cercato e trovato il sasso adatto tra la ghiaia del cortile prima di uscire dal cancello, l’aveva messo nella toppa trovando la faccia tosta di sentenziare ¬– Questa fionda è la più potente che abbia mai costruito. – Tesi gli elastici e puntato l’asfalto a pochi metri da Bullo, il sasso era schizzato via sfiorando la strada, risuonando come se Burt Lancaster avesse sparato con un Winchester sul pelo di una roccia in Sfida all’O.K. Corral. Aveva funzionato. Il suggestionato Bullo, lanciatagli in mano la fionda magica era sparito pedalando con la fionda bidone a tracolla, ma lui sapeva che non sarebbe durata, l’indomani si sarebbe vendicato. Quella notte aveva dormito a tratti, agitato nel pensare al giorno dopo.

Via Mortale, ottanta metri, cento, la bocca aperta e il palloncino, occhi socchiusi e lacrime resistere tremolanti al vento, dalle tempie rifugiarsi solleticanti tra i capelli, nuovo record, ora i freni, solo quelli dietro, “quelli davanti li devo ancora riparare”, uno scatto, la percezione di un gommino che schizza via, leva del freno a vuoto e vuoto nello stomaco, la pelle in fiamme. Senza freni!
“Non posso attraversare l’incrocio, a quest’ora passano macchine e trattori, non posso vederli ci sono alberi, a sinistra il campo di grano è un salto di almeno tre metri, è l’unica.
Volo.”
La Graziella si impuntò nella cunetta catapultandolo in aria. Piroettò il tempo di vedere la bici roteare sopra lui e poi quell’urlo, un grave e potente suono che non sapeva di possedere, una nuvola scura di passeri alzarsi in volo poco prima del suo atterraggio giallo, ma no, forse ancora un po’ verde e morbido di spighe, forse.
Si risvegliò in paradiso, sentì lo scampanellio di una bici ma non immaginò che era la sua Graziella rossa sbatacchiante che cercava posto in mezzo al grano, pensò che era il campanello del fantasma di via Mortale che vide sfrecciare per un attimo pedalando sghignazzante, poi un flash da bianco ad azzurro intenso, la prospettiva verticale delle spighe, le cicale, la scia di un aereo, tre rondini inseguirsi in una treccia nera come quelle di lei, la bambina della seconda fila con gli occhi verde cicoria, quella che “forse non vedrò più e mi faceva abbassare lo sguardo”. Così disteso pensò al film “Incompreso”, che aveva visto qualche sera prima, dove un bambino, arrampicatosi sopra un albero cadeva insieme al ramo spezzato sui sassi nell’acqua troppo bassa della riva di un fiume e dopo sussurrava di non sentire più i piedi, si era rotto la schiena. Quel ramo spezzato gli ricordò suo padre che non aveva colpe ad esser fragile, era spesso fuori per lavoro ma quando c’era, c’era, e quella sera avrebbe voluto chiedergli di aiutarlo ad aggiustare i freni della bici. Pensò a sua madre, una verde e grande quercia sorridente. Provò a muovere le dita dei piedi, c’erano. Non si era fatto nulla. Ruttò l’aria del palloncino in ritardo e rise invaso dal grano, la bici era intatta, la recuperò insieme ai libri sparsi e si avviò verso la scuola.
Nel cortile sentì subito addosso lo sguardo incarognito di Bullo, aveva due strisce violacee sulle guance e un labbro gonfio, la fiondaccia aveva sortito il suo effetto. Davanti a tutta la scolaresca incuriosita Bullo gli si parò davanti guardandolo dall’alto in basso minaccioso, tenendo in pugno la fionda rotta che stava per sbattergli in faccia, quando Ciclosauro, che fino a un attimo prima aveva lo sguardo riverso a terra lo sollevò e guardandolo dritto negli occhi gli svuotò in piena faccia quell’urlo già eruttato dall’abisso del volo in bicicletta.
L’aria e il tempo paralizzarono per qualche istante. Bullo slittò indietro senza alzare i piedi come spostato da un ciclone, incantandosi bocca aperta a fissarlo stupefatto e congelato nel silenzio totale. Mentre nel cortile di scuola cadeva solo una foglia da un platano e dall’atrio il vecchio bidello fissava la scena a bocca semiaperta, Bullo voltò i tacchi e sparì mormorando – Tu sei pazzo… – In un attimo tutti i bambini gli furono intorno battendogli pacche, pungendosi sulle scapole alate. Mentre entravano in classe la bambina dagli occhi cicoria si avvicinò e fissandolo gli mise le dita tra i capelli estraendone piano una spiga di grano che prese con sé, sfuggendogli un ultimo sguardo di cicoria infatuata.
Quel giorno al ritorno da scuola Ciclosauro dimenticò di prendere la fionda sotto al ponte.
Si fermò accanto al cartello stradale di via Ortale giurando che non avrebbe mai più sfidato il fantasma in bicicletta, tenendosi in piedi sul sellino della bici poggiata al palo del cartello disegnò con un pennarello rosso dei raggi di bicicletta e al centro una piccola M dentro la O di Ortale. Amava Maria Occhi Cicoria.

Karma

— Questa è falsa, la deve gettare via! — Proclamò la cassiera del supermercato sventolando la banconota da 20 euro fiera di averne scovata un’altra senza l’aiuto del rilevatore.
— Si sente già dalla carta. — aggiunse stropicciandola con fare collaudato, sprizzando aria di sufficienza.
Si sentì estremamente umiliato per l’ennesima volta. Non ne poteva più di essere trattato in quel modo e l’impotenza della sua condizione ne aggravava la percezione della contingenza, viveva quelle esperienze come incubi sempre più devastanti.
Perché doveva subire quell’inferno? Quando sarebbe finita? Si chiedeva soprattutto come la sua anima era potuta trasmigrare in una banconota falsa, immaginando il manipolo di entità superiori che l’avevano condannato a quel tragicomico Karma passivo, sganasciarsi dalle risate seguendone le peripezie dall’alto dei cieli tra un barbecue e una noiosa partita a carte.
Cos’aveva mai potuto commettere di così grave nella vita per meritarsi quel destino?
Appena tre mesi prima era stato un semplice impiegato di banca, con una vita da single trentenne che vive ancora con la madre fino a quel dannato lunedì, tornando a casa dopo la consueta ora di palestra si era fuso con lo scooter ad un tram per un colpo di sonno.

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Le stesse domande le aveva poste il giorno prima ad una gentile carta di credito, ben più ferrata sulle loro sorti, pressati in un portafoglio nella tasca posteriore di un obeso e flatulente camionista durante il lungo viaggio verso un mercato ortofrutticolo. Stranamente, i sensi erano attivi nonostante fossero intrappolati in materia inerte. L’anima nella carta di credito apparteneva a una donna di mezz’età direttrice di un grande ufficio postale che era spirata addormentandosi in una sauna difettosa il giorno del suo cinquantesimo compleanno. Dalle testimonianze che aveva raccolto in ormai quasi un triennio di vita da tessera in plastica rigida, si era fatta delle idee abbastanza definitive su quello che sarebbe potuto essere l’agognato epilogo di quell’infausta condizione. Gli aveva spiegato che, a quanto pareva, la liberazione e la rinascita potevano avvenire solo nel momento in cui fossero stati adoperati per un’azione che prescindeva dalla loro funzione oggettiva. Lei era ottimista, aveva sentito che un medico dell’ASL trasmigrato in una tessera sanitaria, era stato liberato dal suo possessore, un chitarrista metallaro che un giorno l’aveva usato come plettro durante una jam improvvisata. Purtroppo il suo proprietario, il camionista, era solo appassionato di Karaoke e non suonava strumenti a corda ma non disperava, sarebbe potuto accadere qualcos’altro, chissà. — La vedo nera allora. — aveva commentato lui lapidario. In quale modo poteva mai essere usato se non come oggetto di una squallida transazione? Il suo stato di banconota falsa rischiava addirittura di lasciarlo dimenticare per l’eternità in un cassetto. Essere gettato via sarebbe stato anche peggio, un’azione legata al suo non-valore. Secondo quanto asseriva la signora carta, in mancanza di un’azione pura, che fosse positiva o negativa, sarebbero stati condannati a vivere un lento degrado in quella condizione e all’interruzione definitiva del Karma. La fine dell’esistenza, il nulla. Allora sarebbe stato meglio essere bruciato e farla finita subito, quanto era il tempo di degradazione della cenere? Dopo una lunga pausa, chiuso in muta disperazione, aveva rotto il silenzio domandandole il perché di quella loro, a dir poco, bizzarra trasmigrazione. — Non ti conosco e non credo che saremo ancora assieme abbastanza da consentirmi di esprimere un’ipotesi riguardo la tua situazione ma posso parlarti della mia. Nel mio ruolo di direttrice intervenivo spesso agli sportelli nel caso di operazioni sulle carte di credito e quando veniva fuori qualche irregolarità, ad esempio se erano state svuotate per via dell’ingenuità dei possessori nel tenere nascosto il pin, facevo fatica a nascondere che godevo dell’espressione sperduta e disperata delle vittime, specialmente osservandole mentre distruggevo le carte con le forbici. Credo sia questa la causa del mio stato . — Lui pensò a quando aveva allo sportello persone che si ritrovavano a depositare banconote false. Ricordò la lite con un cliente che gli aveva chiesto irritato cosa avesse da sorridere, dopo che lui gli aveva fatto notare che una banconota da 500 era falsa. Non si era nemmeno accorto di ghignare, una cattiveria innata che faticava a riconoscere, in fondo era una brava persona, aveva solo quel piccolo difetto ed essere trasmigrato in quel modo gli sembrava una punizione troppo severa. — Un anno fa ho incontrato mio zio, da un barbiere. — aveva detto la carta interrompendo i suoi pensieri, — Trasmigrato in un fon. Anche lui nella vita precedente era stato barbiere e verso la pensione aveva preso questa inclinazione sadica di godere quando un cliente si lamentava d’essere scottato mentre gli asciugava i capelli, forse solo perché stanco e stressato da una vita di lavoro. Un mese dopo non c’era più, un pettine mi ha detto che era trasmigrato, la figlia del barbiere lo aveva usato per far volare le bolle di sapone alla sua festa di compleanno. — Avevano continuato a parlare tutto il viaggio fino alla loro separazione, poi lui era stato estratto dal portafoglio per pagare caffè, cornetto e sigarette all’autogrill. Ora dalle mani della cassiera passava accartocciato in malo modo nella tasca del banconista dell’autogrill, osservato come un fesso dagli astanti, tutto rosso in viso. Rivide la luce poco dopo, su un bellissimo belvedere a strapiombo sul mare. Il banconista si era dato appuntamento con la ragazza e avevano appena consumato i panini che aveva preso al supermercato. — Guarda che mi hanno rifilato. — fece il banconista passandolo nelle mani della ragazza. — Sono false? Però sono fatte bene. — rispose lei strofinandolo tra le dita, — e ora cosa ci fai? —. — …e che ci vuoi fare. — disse riprendendolo e girandolo da una parte e dall’altra in una pausa terrificante, che se l’ex impiegato di banca non fosse stato di carta avrebbe versato fiumi di sudore freddo. — Vuoi vedere perché si dice che i soldi volano? — disse il banconista poggiandolo sul muretto e cominciandolo a piegare. Poco dopo un aeroplanino azzurrognolo volteggiava sullo sfondo celeste, planando dolcemente verso il mare. Riuscì a godersi solo un attimo di quel meraviglioso volo panoramico e mentre le onde svolgevano le pieghe del minuscolo velivolo distendendone la forma nativa di banconota, rimaneva abbagliato dalla luce nel reparto nascite di un remoto ospedale. In un’osteria su una strada provinciale, l’ultima immagine della signora imprigionata nella carta di credito prima di vedere il paesaggio diventare piccolo sotto di lei fu la dentatura del camionista che, in assenza di stuzzicadenti, la stava utilizzando nascosta tra le mani per liberarsi di un brandello di braciola. Nel frattempo, nel mezzo dell’oceano Atlantico settentrionale, un rattrappito pallone Super Santos, reduce da una movimentata pasquetta in spiaggia, affrontava la traversata in direzione delle Americhe. Sì era proprio lui, Cristoforo Colombo.

Il Grande Maestro

Il grande maestro era alto, bianco con gli occhiali e ci voleva bene a tutti, anche ai più cattivi. Quando era arrabbiato faceva finta e si vedeva bene.
Anche con il bambino che non capiva, quella volta che tutto contento gli aveva portato il quaderno che aveva riempito di strani segni tutti uguali, invece di fare tutte S, sopra i righi.
Gli aveva sorriso, fatto una carezza e detto — Bravo! —, poi l’aveva accompagnato al banco e si era messo accanto a lui, a tenergli un po’ la mano con la penna e a parlargli piano, che noi non sentivamo.
Quando era quasi Natale, il grande maestro ci disse di portare forbicine e cartoncino per il giorno dopo.
Quel giorno di scuola prima delle vacanze, ci fece disegnare delle spirali sui cartoncini bianchi e ce le fece ritagliare, intanto lui aveva sistemato dei bastoncini sopra i termosifoni, sotto le finestre.
Poi prese le nostre spirali, le allungò e le appoggiò sopra i bastoncini, che sembravano tutti alberelli di Natale, solo che dopo un po’ avevano iniziato tutti piano piano a girare.
Perché, ci spiegò, l’aria calda va sempre verso l’alto.
L’aria calda, man mano che ci scalda, non ha finito il suo lavoro, sale su in cielo a scaldare le anime perché lassù deve fare proprio freddo, è lì che si crea la neve.

Il migliore maestro della mia vita, quando avevo sette anni,
il maestro Zefferino.

L’ultima storia

La vista era nitida quel mattino, il sole pronto e in ritardo laggiù in fondo, dietro una fitta corona di aceri, poco sopra lo spazio che figlio lago nato cieco tastava accudito da madre pioggia.
Erano in silenzio sulla veranda, l’aria quieta tesseva il suono sfilante del pettine tra i capelli di lei sulla sua sedia a rotelle, lui in piedi alle sue spalle in quel rituale che non poteva farne a meno e, ne era sicuro, anche lei, che non poteva dirglielo ma sapeva farglielo sentire.
Da quando aveva perso la voce le parlava di continuo e a volte si rispondeva da solo, interpretandola nei ricordi.
Nel timore di farle male con il tremolio della mano, la voce pacata era sottomessa all’attenzione delicata con cui la pettinava.
Aveva smesso di scrivere da quando lei s’era ammalata e avevano deciso di ritirarsi in quella casa in abete rosso gelosamente ostinata a fissare il lago.
— Sai cosa pensavo? —, fece una lunga pausa ormai spontanea. All’inizio, quando ancora lei poteva comunicare almeno con i gesti, attendeva sempre una risposta prima di continuare, poi nel tempo era divenuta una speranza, ora inconsapevole abitudine.
— Pensavo che scrivere somiglia a pettinare. Passi la prima volta e trovi tanti nodi da sciogliere prima di arrivare in fondo. La seconda volta ne trovi meno. Dopo tante passate, quando senti che il pettine va liscio, allora sei soddisfatto e quella storia per te è finita, è nata, e non hai più bisogno di ripassare. —
Il primo raggio eludeva gli alberi tracciando una retta che sfiorando il lago brillava netta sui vestiti di lei, che aveva smesso di respirare.
Alzò gli occhi dai capelli alla lastra d’acqua intersecata che lo abbagliò, tolse adagio gli occhiali e indeciso vi trovò posto nella tasca dietro, assieme al pettine.
L’ultima storia, talmente bella che non avrebbe mai saputo scrivere, gli nacque tremula da un occhio, affrontò pazientemente inesorabile le revisioni delle sue rughe prima di cadere e perdersi libera, finita, tra quei amati, profumati capelli lunghi .

Il fantasma dell’Ikea

Lui odiava andarci, litigavano sempre. Lei invece adorava andarci, anche se purtroppo e  — nel modo più assoluto!  — mai per colpa sua, litigavano sempre.
La prassi una fotocopia: parcheggiare i bambini dai nonni e farsi prestare il peggior furgone del parco mezzi di quel taccagno traslocatore del cognato.
Guai a farle la battutina del déjà vu quando ben oltre la metà delle volte, al ritorno, si ritrovava a guidare per trasportare loro due più una confezione di candele profumate che non bastava a coprire il tanfo di nafta di quel carcassone sgangherato, ma era il solito — Idiota! Che ne sapevi cosa avremmo potuto trovare all’angolo occasioni? — e da lì cominciava l’elenco dei mobili che sì, non erano rotti o vecchi, ma si può sempre trovare qualcosa di meglio, dal design più moderno e funzionale. Quando sentiva quelle tre parole sopprimeva un brivido di sopportazione, specialmente “funzionale”.

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Lei gli sembrava posseduta, era un appassionato di soprannaturale e uno dei pensieri intimi che lo distraeva aiutandolo a sopportare con ironia quegli spossanti eterni momenti era immaginare quel posto abitato da anime sospese che avevano trovato il più spassoso  passatempo prima di vedersi assegnare un posto nell’aldilà ormai in esubero: una gara a chi fa litigare di più le coppie. Si divertiva a immaginarla marionetta di uno spiritello che impossessatosene ben prima di imboccare il parcheggio, la guidava governandone la voce e le movenze tra esposizioni e scaffali vari. — Sembri posseduta!— le digrignava spesso inutilmente  tra una guerriglia e l’altra. Stavolta l’obbiettivo però era ben preciso: il divano nuovo. Cosa mai le aveva fatto il loro povero fedele divano che lui amava di un amore corrisposto? Negli anni aveva preso amorevolmente la sua memoria di forma dopo stressanti giornate di lavoro e non esigeva d’esser portato fuori per passeggiate e bisognini come gli toccava fare ad ogni alba con il piccolo Fuffhi. Con l’acca, pure al cane lei aveva voluto dare quel tocco Ikea.
Al secondo piano (si doveva cominciare tassativamente da lì come nel gioco dell’oca) la campanella del primo round non si fece attendere e squillò con i di lei elogi a letti-contenitore e testiere-librerie e i di lui potenziali ecosistemi di acari e accumula polvere, disutili cause di asma ed enfisemi.  Il secondo round li attendeva alle camerette per bambini e lui era già pronto per l’attacco “ma che bel letto a castello marcondirondirondero” opponendo due figli obesi non certo per colpa sua e la  condanna a scaricatore di porto-casa ogni sera da divano a castello con un bisontino sulle spalle… che successe qualcosa. Stava sibilandole un — Hai intenzione di dormire qui o possiamo andare a vedere i benedetti divani. — che a metà frase fu folgorato dalla vista di un viso ceruleo , acquoso e fluttuante  riflesso su un quadro in una lontana cameretta per bambini, che muoveva le labbra esattamente come lui, tanto che sfumò la frase restando di ghiaccio a fissare quel miraggio galleggiante che ora aveva anche la bocca aperta, come lui. La chiuse, e quello la chiuse.
— Guarda là! — le esclamò afferrandola per un braccio.
— Uh! Bellissima quella cameretta! Non dirmi che ti piace! — fece lei piacevolmente sorpresa.
— Ma no! Guarda il quadro! Il quadro!!! —
— Oh… stupendo! Lo prendiamo per la camera dei bambini? —
— Ma tu non vedi niente? —  disse ancora doppiato dal silente labiale dell’infausto miraggio.
— Ma allora cos’è che ti piace? Dimmelo! — gli fece divincolandosi per andare verso la cameretta, non le pareva vero che lui avesse trovato qualcosa di suo gusto che non fossero salame di renna e biscotti alla cannella. Rinfrancatosi un attimo al pensiero che non poteva che trattarsi di un gioco di riflessi, la seguì, ma con le gambe molli e a bocca aperta. Il viso cominciò a sfumare man mano che si avvicinava e quando furono entrambi nella cameretta e lei già carezzava una seggiolina come fosse Fuffhi, era svanito del tutto.
— Ma ti piace davvero così tanto questo quadro? Hai sempre preferito vetro senza cornice… — gli disse vedendolo continuare a fissarlo incantato. Lui muto tornò lentamente indietro verso il posto del primo avvistamento, voltandosi di scatto ogni tre passi. Lei, osservandolo un po’ stranita, stavolta si concentrò sulla scrivania pensando che doveva essere quella l’oggetto del suo inaspettato interesse.
— Bella eh? Come piacerebbero due di queste ai bambini, magari di due bei colori diversi… —
— Fosse per te ti compreresti tutto, ma proprio tutto. — ci tenne a sottolineare — Devo andare in bagno. —
Le fece ormai ripresosi dallo spavento e sempre più certo dell’ipotesi gioco di riflessi ma gli serviva un attimo di quiete, comunque quel bizzarro episodio l’aveva un po’ scosso.
— Ti aspetto ai divani. — La sentì dire già dandole le spalle e guardando lungo il cammino tutte le possibili superfici riflettenti che avevano potuto creare quell’effetto che però, pensandoci bene, era stato momentaneo. Appena entrato nei bagni fu sorpreso dal suo acume: era pieno di gente, sicuramente qualcuno aveva tenuto aperta un’anta da qualche parte giusto il tempo di creare quella combinazione di rifrazioni. Non poteva che essere sua quella faccia, e lei semplicemente non l’aveva vista perché il punto di osservazione non era allineato con il suo, unico in quell’incastro raro ma possibile. Incredibile, dopo lo avrebbe raccontato e si sarebbero fatti due risate, magari quella volta non avrebbero litigato, pensò ridacchiando mentre si insaponava le mani.

— Così tu puoi vedermi. — lo gelò una fredda quanto afona voce femminile.
Sentì il sangue scendergli a cascata verso i piedi, rimase a fissarsi le mani e le bolle di sapone, irradiate da una lenta, fioca luce intermittente, la sorgente era all’altezza della sua testa, nello specchio che aveva di fronte e sul quale non osava alzare lo sguardo, terrorizzato. Aveva quasi trovato il coraggio per fuggire che la voce riprese.
— Non aver paura, ti prego. Non posso fare del male. Tu hai un dono, ti può essere molto utile. Può cambiarti la vita se impari a conoscerlo e ad usarlo. —
— Possibile che con tutta questa gente non c’è nessuno a cui scappi da pisciare? — si disse sconvolto di sudore freddo sperando che qualcuno potesse entrare in quel momento e mettere fine a quell’incubo.
Fu esaudito. Entrò di corsa un signore attempato che se la stava facendo sotto, sbattendosi la porta del primo bagno alle spalle. Ma la presenza era ancora lì e anche lui, mani serrate ancora insaponate e occhi sgranati sulle bolle. Entrò un ragazzo per lavarsi le mani a due lavandini dal suo. Lui lo fissò e quello dopo un’occhiata interrogativa lo salutò timidamente, inquietato dal suo sguardo e dalla sua rigidità.
— Non può né vedermi né sentirmi, — gli sospirò la voce, — solo tu puoi farlo, tu hai il dono. —
— MA CHI SEI! CHE VUOI DA ME! — sbottò alzando lo sguardo allo specchio, giusto il tempo di sentire il rumore della porta e non vedere il povero ragazzo che fuggiva allucinato con le mani insaponate sgommando in retromarcia.
— Non gridare, o ti prenderanno per un pazzo e ti trascineranno via con la camicia di forza. Stai calmo e ascoltami. —
Sembrava l’immagine dello specchio della regina di Biancaneve ma era una donna ed anche se fluttuante ne riconosceva dei bei lineamenti. Restò a fissarla ipnotizzato. Nel frattempo, il signore dalla vescica debole era uscito e si accingeva a lavarsi le mani fischiettando.
— In vita ero una donna felice, come tua moglie, casa, famiglia, amiche, un lavoro, ero commessa qui all’Ikea, part-time. Amavo questo posto, a un punto tale che quando potevo ci tornavo. Non molti sono così fortunati da avere un posto di lavoro dove desiderano tornare anche nel tempo libero. Tu ad esempio no, non è così? —.
— Che ne sai tu di me? Ci spii anche a cas… —
— Prego? — gli fece il signore a fianco guardandolo interdetto. Non gli rispose continuando a fissare lo spettro e quello se ne uscì alla chetichella lasciandoli di nuovo da soli.
— L’unica nota stonata in quell’armonia quasi perfetta era che mio marito non sopportava questo posto e faceva di tutto per rovinare la mia passione, anche sadicamente a volte. Mi ricorda qualcuno… — lo pizzicò con un sorriso ironico galleggiando più intensamente,  — … e io sopportavo, sopportavo, sperando che un giorno  una magia avrebbe potuto cambiarlo, ma purtroppo sono morta prima e sono riuscita miracolosamente a fuggire dall’aldilà, dove non è male… —
— Ma non c’è l’Ikea! — sbottò lui con una risata tesa ed isterica. Si ghiacciò quando vide la tenue luce celestina prendere sfumature giallo – arancione.
— Hai detto che non puoi fare del male! —  starnazzò intimorito.
— Purtroppo sì. — replicò secca riprendendo le tinte originali.
— Tu che poteri hai? Hai detto che io ho un dono e posso usarlo, ma come? — aveva preso coraggio.
— I miei poteri? Non e ho tanti, non posso agire sulla materia in nessun modo ma posso interagire con la mente, solo quella delle donne, purtroppo, — emanò un flash arancione e lo guardò in cagnesco, — e a volte, se sono sulla mia stessa lunghezza d’onda, per così dire, posso indurle a fare alcune cose, ad esempio acquisti un tantino esagerati. — ridacchiò.
— E il mio dono? Come potrei sfruttarlo? — disse tradendo avidità.
— Uh, aspetta! Non ti ho parlato di un altro mio potere. Ubiquità. Posso essere in più posti contemporaneamente. —.
— Lo so cosa significa ubiquità. — replicò sprezzante.
— Allora puoi immaginare che mentre ti ho intrattenuto qui, nel frattempo, ho seguito la tua adorabile moglie, ho scoperto che avete il conto bancario cointestato e le ho fatto fare qualche piccola follia. Ha appena acquistato un divano in pelle tre posti Mlohkcots , 1.500 euro… ma non è un problema per te, vero tesoro? AHAHAHAHAHAHAHAH!!!! — svanì lasciandolo con l’eco di quella sinistra risata a guardarsi stordito la faccia nello specchio.
— Nooooooooo!!! — uscì come un indemoniato alla ricerca di lei, tra le risate beffarde dello spettro che lo seguiva su ogni oggetto riflettente con cui lui si imbattesse durante la sua corsa sfrenata, gridando il nome di sua moglie sotto lo sguardo atterrito di clienti e commesse, mentre lo spettro gli gridava dietro
— ILDRON! Struttura letto con contenitore 430 EURO! ACQUISTATA! AHAHAHAHAH —
— Fermatela! Fermate mia moglie!!! —
— KILVAM! Materasso in lattice naturale 500 EURO! AHAHAHAHAH —
— TI PREGO! BASTA!!! — strillava disperato perso in quel labirinto infinito,
— Hai la Carta Ikea Family? NO? Spiacenti… ATSKCOD cucina completa 4.600 EURO AHAHAHAHAH! —
Si svegliò di soprassalto dando una gran testata al comodino Sarnon e facendo cadere a terra la sveglia Siviv svegliando anche lei,
— Ma che hai? Che fai con quelle mani? Ricordati di chiamare mio fratello, dobbiamo andare all’Ikea per il divano. —
— Devo riflettere. — Le rispose insaponandosi le mani a secco, lo sguardo perso nel vuoto.

Mi è capitato di avere a che fare con una dipendente pubblica parecchio sgarbata. Mi sono messo un attimo in discussione pensando: sarò io? I miei modi? La mia faccia? Mi sono assolto, visto che il prossimo aveva lo stesso trattamento.
Mancanza di rispetto del “prossimo”.