La vista era nitida quel mattino, il sole pronto e in ritardo laggiù in fondo, dietro una fitta corona di aceri, poco sopra lo spazio che figlio lago nato cieco tastava accudito da madre pioggia.
Erano in silenzio sulla veranda, l’aria quieta tesseva il suono sfilante del pettine tra i capelli di lei sulla sua sedia a rotelle, lui in piedi alle sue spalle in quel rituale che non poteva farne a meno e, ne era sicuro, anche lei, che non poteva dirglielo ma sapeva farglielo sentire.
Da quando aveva perso la voce le parlava di continuo e a volte si rispondeva da solo, interpretandola nei ricordi.
Nel timore di farle male con il tremolio della mano, la voce pacata era sottomessa all’attenzione delicata con cui la pettinava.
Aveva smesso di scrivere da quando lei s’era ammalata e avevano deciso di ritirarsi in quella casa in abete rosso gelosamente ostinata a fissare il lago.
— Sai cosa pensavo? —, fece una lunga pausa ormai spontanea. All’inizio, quando ancora lei poteva comunicare almeno con i gesti, attendeva sempre una risposta prima di continuare, poi nel tempo era divenuta una speranza, ora inconsapevole abitudine.
— Pensavo che scrivere somiglia a pettinare. Passi la prima volta e trovi tanti nodi da sciogliere prima di arrivare in fondo. La seconda volta ne trovi meno. Dopo tante passate, quando senti che il pettine va liscio, allora sei soddisfatto e quella storia per te è finita, è nata, e non hai più bisogno di ripassare. —
Il primo raggio eludeva gli alberi tracciando una retta che sfiorando il lago brillava netta sui vestiti di lei, che aveva smesso di respirare.
Alzò gli occhi dai capelli alla lastra d’acqua intersecata che lo abbagliò, tolse adagio gli occhiali e indeciso vi trovò posto nella tasca dietro, assieme al pettine.
L’ultima storia, talmente bella che non avrebbe mai saputo scrivere, gli nacque tremula da un occhio, affrontò pazientemente inesorabile le revisioni delle sue rughe prima di cadere e perdersi libera, finita, tra quei amati, profumati capelli lunghi .
Categoria: storie brevi
Nebbia nei capelli
Se provi piacere asciugando i capelli a una persona con il fon, allora significa che l’ami, pensava.
Ogni testa assonnata che sbucava dai sedili dell’autobus 21 delle 7.15 sembrava aver portato un po’ di nebbia con sé prima di salire, nei capelli. C’era odore di nebbia lì dentro. Ben diverso dal profumo sprigionato dall’aria calda e profumata di uno sbuffante fon, placido separatore di masse capellose appena deterse.
Su quel pensiero ondeggiò vittima di un primo colpo di sonno, riafferrando all’ultimo secondo utile la sbarra a cui si manteneva, costretto anche quel giorno a stare in piedi.
Urtò un signore che lo guardò con espressione da ultimatum: vedete di resistere al vento dannata canna, buona la prima ma ora stop, o libererò il mastino dalle labbra e ciò non vi conviene.
Era grigio, sembrava un tipo da “voi”. Disse – Scusate. –, staccando lo sguardo per lasciarlo tornare nel suo guscio privato di pensieri disconnessi tipico di chi è condannato a non poter viaggiare seduto.
Gli scappò un singulto immaginando il signore a fianco ringhiargli – Non mi rompere il guscio! – Il signore sembrò accorgersene lanciandogli un’ultima occhiataccia che però cambiò subito in un ghigno soddisfatto, pigiando il pulsante di fermata e anguillando nella mischia nonostante l’abbondante stazza fino a raggiungere l’uscita, beato lui. Così quel autobus non era che un gran contenitore di una cinquantina di uova stipate, sedute ed in piedi ognuna con la propria invisibile scadenza timbrata da un inchiostro non visibile, tranne che alla fine, prima della cottura. Se Newton fosse vissuto in quel periodo avrebbe scoperto la gravità in un autobus colmo di uova, niente mele, in piedi alle 6.30 di mattina, quando davvero sai bene che cos’è la forza di gravità. Secondo colpo di sonno, per fortuna stavolta urtò una donna che non solo aveva rotto il guscio almeno un’ora prima, ma già sembrava chioccia e lo riappese energica alla sbarra come una pianta di pomodori ad una canna, con tanto di sorriso.
La ringraziò imbarazzato. La donna – chioccia era esperta di cinetica da mezzi pubblici, non si teneva neanche alla sbarra, si mise a studiarla per non essere di nuovo sopraffatto dal sonno, anche perché osservandola si accorse che riusciva a chiudere gli occhi e a recuperare il sonno senza appigli, strabiliante. Il trucco sembrava celarsi nella posizione, esattamente parallela ai finestrini, e poi c’era una sorta di istinto naturale nel prevedere gli sbilanciamenti del mezzo dovuto forse ad una conoscenza profonda del percorso. Strano, non l’aveva mai incontrata su quel autobus che prendeva ormai da ben undici anni, sempre alla stessa ora. Doveva quindi essere dotata di un istinto sovrannaturale.
Si disse che doveva assolutamente apprendere quella tecnica portentosa. Visto che lei era stata così garbata nel salvarlo, pensò di approfittarne per chiederle umilmente quante fermate mancavano alla sua liberazione, in modo da rompere il ghiaccio e poter carpire il suo segreto. Si mise ad osservarla aspettando l’attimo favorevole nella sua intermittenza sonno – veglia e nel momento in cui notò la massima apertura delle palpebre le disse: – tra quante scende? –. Era di altezza media, tondeggiante ma evidentemente soda e dotata di buona elasticità. Lei girò gli occhi bruni ancora annebbiati verso i suoi, lui li vide accendersi rapidi e trasportare il resto del viso alla prontezza di una cortese risposta. Aveva una specie di ritmo magico che gli sfuggiva. – Capolinea. – gli rispose con espressione rassegnatamente solidale. Anche lui scendeva al capolinea e nel resto del tragitto si tennero svegli a vicenda chiacchierando tra gli scossoni da una fermata all’altra.
Quando il guscio e il ghiaccio erano stati rotti abbastanza si lanciò nella domanda che più bramava farle, – come riesce a dormire in piedi senza tenersi? –. Gli rispose sorridente che il suo segreto era immaginare intensamente il pendolo di Foucault e lui, colto alla sprovvista e dall’ignoranza di cosa fosse, annuì simulando di aver capito con una risatina forzata. Al capolinea si salutarono, lei in realtà prendeva sempre quell’autobus ma mezzora prima, quella mattina aveva fatto tardi. Si erudì su Foucault ed il pendolo e il giorno dopo uscì di casa più presto del solito. Scoprì nuove cose: che era stupido non farsi covare dal letto mezzora prima per non soffrire tre quarti d’ora di tortura, che Foucault alla sua stessa età, colpito da paralisi, si era fatto montare uno specchio da lui inventato per seguire il moto degli astri sul letto dov’era immobilizzato, e che c’erano dei capelli che avrebbe tanto desiderato asciugare con il fon.
Orio e Aria
Scritto nel 2011.
Notte di fine estate in piena luna, la due cavalli penetra lenta e silenziosa la pineta che in morbida discesa va a barbeggiare la striscia bianca di sabbia che la separa dal mare, sopra i due cavalli Orio e Aria si passano la pipa, l’odore dei pini entra dai finestrini e miscela con quello dell’erba abbrustolita l’aria è calda Orio spegne motore e fari, la macchina continua la discesa verso mare nel buio, dondolando, cigolando, le gomme sottili cedono alle buche che fanno da mortaio agli aghi di pino secchi col rumore di chi mangia patatine.