La vista era nitida quel mattino, il sole pronto e in ritardo laggiù in fondo, dietro una fitta corona di aceri, poco sopra lo spazio che figlio lago nato cieco tastava accudito da madre pioggia.
Erano in silenzio sulla veranda, l’aria quieta tesseva il suono sfilante del pettine tra i capelli di lei sulla sua sedia a rotelle, lui in piedi alle sue spalle in quel rituale che non poteva farne a meno e, ne era sicuro, anche lei, che non poteva dirglielo ma sapeva farglielo sentire.
Da quando aveva perso la voce le parlava di continuo e a volte si rispondeva da solo, interpretandola nei ricordi.
Nel timore di farle male con il tremolio della mano, la voce pacata era sottomessa all’attenzione delicata con cui la pettinava.
Aveva smesso di scrivere da quando lei s’era ammalata e avevano deciso di ritirarsi in quella casa in abete rosso gelosamente ostinata a fissare il lago.
— Sai cosa pensavo? —, fece una lunga pausa ormai spontanea. All’inizio, quando ancora lei poteva comunicare almeno con i gesti, attendeva sempre una risposta prima di continuare, poi nel tempo era divenuta una speranza, ora inconsapevole abitudine.
— Pensavo che scrivere somiglia a pettinare. Passi la prima volta e trovi tanti nodi da sciogliere prima di arrivare in fondo. La seconda volta ne trovi meno. Dopo tante passate, quando senti che il pettine va liscio, allora sei soddisfatto e quella storia per te è finita, è nata, e non hai più bisogno di ripassare. —
Il primo raggio eludeva gli alberi tracciando una retta che sfiorando il lago brillava netta sui vestiti di lei, che aveva smesso di respirare.
Alzò gli occhi dai capelli alla lastra d’acqua intersecata che lo abbagliò, tolse adagio gli occhiali e indeciso vi trovò posto nella tasca dietro, assieme al pettine.
L’ultima storia, talmente bella che non avrebbe mai saputo scrivere, gli nacque tremula da un occhio, affrontò pazientemente inesorabile le revisioni delle sue rughe prima di cadere e perdersi libera, finita, tra quei amati, profumati capelli lunghi .