Questo racconto è del 2011, due grandi amici vanno a pesca come d’abitudine ma la loro amicizia verrà spezzata da una sorpresa.
Alfio e Loris camminano uno fianco l’altro come sempre, come quasi ogni sera, con le canne da pesca in mano e gli zaini lungo la stretta via bianca e farinosa che inerpicandosi porta alla scogliera, calpestando passo dopo passo l’evanescenza delle loro lunghissime ombre proiettate dal tramonto appena avvenuto alle loro spalle. Alfio è del posto, figlio di pescatori. Loris invece, come ogni anno, è lì per trascorrere le vacanze estive con la famiglia, commercianti lombardi. Entrambi sono ventenni. Alfio è alto, magro, scuro di capelli, occhi e carnagione, scuro anche nel viso. Più che scuro si direbbe pensieroso. Parla poco, ma quando parla per Loris è uno spasso, è cinico ed arguto, ha dentro quell’anziana saggezza che lo fa tanto ridere. Lo sfotte dicendo che gli sembra nato al contrario. Nato morto, morirà neonato.
Loris è un po’ l’opposto. È pimpante e logorroico, basso, tarchiato, biondiccio, carnagione chiara e lentiggini. Il sorriso pressoché sempre stampato.
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Alfio, per rispondere alle sue provocazioni, dice a Loris che è come una cicala: così intenta a bearsi del suono che emette, che non smetterebbe mai di frinire, nemmeno nell’attimo in cui un discolo gli infilasse una pagliuzza di fieno nel di dietro, per divertirsi a vederla volare via così goffamente addobbata. Una volta, quand’erano più piccoli, appena conosciuti, Alfio gli aveva mostrato quel giochetto sadico. Loris, incredulo, aveva visto zigzagare maldestramente e sparire contro il sole la cicala disperata e frinente, con una lunga pagliuzza secca infilata su per il dorso. Loris però sa bene, ormai, come sfilare parole al taciturno amico. Gli basta parlare del sud come lo fa qualcuno del nord. Suo padre è un nordista devoto e lui per alcuni versi lo segue. Mancano circa cinque minuti di cammino prima di arrivare alla scogliera, decide di rendere Alfio logorroico e quindi gli fa: «Sai? Mio zio è arrivato oggi con l’aereo da Milano per venire a trovarci, ha detto che dall’alto, prima di atterrare, sembra tutta così ordinata quest’isola… Poi quando è sceso si è reso conto dell’illusione ottica che può causare la distanza di osservazione: anche una baraccopoli o dei mucchi di immondezza, visti dall’alto, possono sembrare puliti e ordinati. Poi da vicino… tutta un altra storia! ». Alfio capisce l’antifona e rimane muto per un po’, mentre l’altro si lascia sfuggire qualche piccola pernacchia di riso mal contenuto, infine rompe il silenzio: «Molti di voi del nord, trattate il sud come alcuni di quelli che vanno con i transessuali: li disprezzate, prima e dopo che ci siete stati, non commentate mai il “durante” ma ci tornate sempre. Chissà perché? Siete solo una piccola branca di avidi, paurosi e grigi commercianti repressi!!!». Loris scoppia a ridere e gli dà una sonora pacca sulla spalla, strappandogli un ghigno. Sono quasi arrivati alla postazione di pesca, abbandonano la stradina che fiancheggia la scogliera per discenderla attraverso un piccolo sentiero fatto di massi fino a raggiungerne uno enorme, levigato e piatto, ad un metro sopra il mare. Comincia a fare scuro anche se ci si vede ancora abbastanza bene per poter sistemare a terra le cose ed attrezzare le canne da pesca senza l’aiuto delle pile. Finalmente sono seduti, uno fianco all’altro, i galleggianti in acqua con su gli stecchini fosforescenti e le gambe penzolanti sul mare. Loris, come sempre, continua a parlare praticamente da solo di qualsiasi cosa gli passi per la mente. Ad Alfio comunque piace ascoltarlo. Gli piace il tono della sua voce e, di tutte quelle parole ormai, ha imparato a discernere quelle interessanti e filtrare quelle inutili riuscendo a pensare ad altro, ascoltandole come fosse il suono piacevole di una flebile radio in sottofondo o la placida telecronaca pomeridiana di un noioso incontro di tennis. Quella sera la luna è quasi piena. Si vede bene tutta la baia, il mare calmo riflette il bagliore lunare, le piccole luci gialle di imbarcazioni sparse qua e là e quelle delle costruzioni e dei lampioni lungo la costa, ogni tanto il flash di qualche auto nel prendere una curva. Alfio, lo sguardo perso all’orizzonte, interrompe la logorrea di Loris: «Vedi quello scoglio in mezzo al mare laggiù?». «Si, lo scoglio degli amanti», e allora?». «Guarda come si vede bene stasera… sai perché si chiama così?». «No, immagino per via della forma, anche se non ce li vedo proprio due amanti.». «Allora guarda bene, non ti sembra una barca con due corpi? Due corpi abbracciati sopra?». «Insomma, forse sì, con un po’ di immaginazione…magari è il punto di vista che conta, sai che…». «Ti ho chiesto se sai perché lo chiamano così.» «No. Non lo so. Perché?». «È una lunga storia, un ricordo arricchito e mutato in leggenda a furia di essere tramandato per qualche generazione dalle nonne e i vecchi pescatori del posto, se vuoi te la racconto.» «Tu che racconti una lunga storia?! Caspita! Non me la perderei per nulla al mondo!!! Mi dovevo portare un registratore. Sei sicuro che sarà lunga? Conoscendoti ne avrai al massimo per un minuto e mezzo! È impossib…». «D’accordo! Se stai zitto un attimo ci provo! Va bene?». Loris ammutolisce con un “ok” sghignazzante. «Si chiamavano Aspanu e Sciabè.» «Chi, gli amanti? Ma che razza di nomi son…». «È una leggenda! Vuoi starmi a sentire? Si o no? Se non ti va mi fermo qui e buonanotte!». «No, no! Continua! Ora sono curioso! Ascanio e Scia…che? E allora?». Alfio sospira, prende una pausa e continua: «Aspanu e Sciabè erano i loro nomi. Aspanu era alto, un po’ ingobbito, magrissimo e taciturno, dietro l’apparenza esile celava una forza incredibile, era mastro d’ascia e fabbro, costruiva e riparava barche, forgiava attrezzi di ferro ed era sposato ma senza figli. La moglie aveva sempre partorito prematuramente e ormai non c’era più speranza, era stato un matrimonio di convenienza e se già all’inizio non avevano molto da condividere ormai non si parlavano più da tempo, anche se vivevano sotto lo stesso tetto. Sciabè invece aveva un carattere espansivo, era sempre sorridente, il corpo minuto, sodo e tondeggiante. Veniva da fuori, aveva ereditato una piccola casetta in campagna da uno zio deceduto e viveva lì insieme ad un unico figlio. Poi, un giorno, suo figlio era emigrato in cerca di fortuna e adesso viveva in solitudine. Raramente riceveva da lui una lettera che, poiché analfabeta, doveva farsi leggere da qualcun altro. Coltivando la terra e allevando pollame, qualche pecora e una sola mucca, riusciva a tirare avanti vivendo dei suoi prodotti e vendendoli al mercato del villaggio e di quelli più vicini. Aveva anche un forno a legna con cui faceva un pane delizioso che tutti adoravano: il famoso pane di Sciabè.» «Ah! Ora ricordo dove ho sentito questo nome! Lo conosco! Mamma lo compra ogni tanto! È buonissimo! Specialmente se lo metti al forno e poi ci metti l’ol…». «Posso continuare?». Loris sghignazzando: «Uh scusa, non volevo interromperti… vai, vai, sto zitto, muto. Vai!». «Aspanu e Sciabè si erano amati, già solo con lo sguardo, dalla prima lontana volta in cui i loro occhi si erano incontrati ma, soprattutto per via della rigida timidezza di Aspanu, non si erano mai avvicinati più di tanto, inoltre il villaggio contava pochissime anime e tutti vedevano e sapevano tutto di tutti. Aspanu era molto intelligente, cupo e riflessivo, era sempre chiuso nella sua bottega. Raramente la sua fucina era spenta ed oltre a costruire e riparare barche, lavorava il ferro mirabilmente. Aveva creato utensili ed anche diverse piccole invenzioni che erano state utili agli abitanti del villaggio. Si dice addirittura che sia stato lui il primo inventore del meccanismo del verricello.» «Scusa l’ignoranza Alfio, ma a che serve un verricello?». «Vedi il mulinello della canna che hai in mano? Ti serve per tirare su i pesci quando abboccano. Beh, più o meno la stessa cosa, serve a tirare pesi con l’aiuto di una semplice leva.» «Cavolo!! Se Aspanu avesse potuto brevettarlo sarebbe potuto scappare in un isola fiscale con Sciabè e sarebbe diventato multimilion…». Alfio lo blocca con un occhiataccia e continua: «Aspanu amava anche pescare ma più che altro era un passatempo per lui, guadagnava già abbastanza con la sua bottega, quindi quando ci andava preferiva restare sotto costa, vicino alla scogliera. Non era un buon nuotatore, anni di lavoro nella bottega gli avevano indurito i polmoni ed accorciato il fiato e in più aveva un gran timore del mare aperto. Il mare, quando era ancora bimbo, gli aveva strappato via il padre. Il muro grigio e silenzioso formato dalla folla sul molo resistere al vento sotto il cielo scuro. Un muro rapidamente demolito, a tratti, dagli impeti e le grida strazianti di sua madre, ricostruirsi lentamente, fino a chiuderla di nuovo in una cinta di compassione mormorante. Il volo raso della procellaria sfiorare fulmineo ed incurante vertiginose pareti di onde nere seguita dall’eco del suo stesso grido, quel grido vagamente umano, quasi a fare il verso cinica e beffarda alle urla di sua madre. La vista di quel mare impetuoso ed impietoso verso quel puntino scuro che era il suo forte e invincibile papà che sfocava laggiù, appena sotto la linea di un orizzonte cupo e indefinito. Queste immagini gli si nascosero dentro per il resto della vita. Quando usciva con il suo piccolo gozzo da pesca, Aspanu, gettava l’ancora a qualche metro dagli scogli, calava qualche lenza e raccoglieva frutti di mare. Andava in immersione solo brevemente, a volte, per provare a catturare qualche polipo, per prendere qualche ostrica o qualche riccio di mare. Qualcuno racconta che si era costruito una specie di maschera subacquea fatta di legno, pece e frammenti di vetro. Con il tempo aveva imparato a conoscere palmo a palmo tutta la scogliera della baia. Un giorno, mentre era fuori per pescare, entrò con la barca nella grotta del diavolo, quella stretta e lunga che sta più avanti, qui vicino, dove la costa si alza a picco sul mare.». «La conosco! L’estate scorsa zio ha affittato un gommone e ci siamo entrati dentro, l’ingresso è un po’ basso e quando c’è l’alta marea o il mare mosso è meglio non provare ad entrarci secondo me…». «Esatto! Proprio quella. Aspanu ci era entrato con la barca quel giorno e, nell’atto di calare una lenza, guardò distrattamente la parete di fondo. Verso il basso, dove la volta discendeva dando alla grotta l’impressione di dover terminare, notò quella bassa e scura apertura della larghezza di una barca ed alta circa tre palmi a cui non aveva mai prestato particolare attenzione. Incuriosito, posò la lenza, si immerse, nuotò verso quella direzione e vide che l’arco creato dall’apertura continuava per qualche metro prima di perdersi nell’oscurità. L’acqua in quel punto era ghiacciata. Tese l’orecchio nell’antro. Gli parve di sentire un leggero scroscio continuo, come di acqua corrente, ma non era sicuro, poteva essere un eco particolare creato dal movimento del mare attraverso gli anfratti semi sommersi da qualche parte nella grotta. Ebbe la sensazione, o forse un illusa speranza, che oltre quel cunicolo potesse esserci un altra grotta. Una grotta nella grotta. Ma era impossibile entrarci con la barca, era troppo bassa e profonda, l’idea di avventurarsi a nuoto in quel ventre buio e ghiacciato gli dava i brividi. Quella specie di bassa gola lunga e oscura, però, lo attraeva più di quanto lo intimorisse. Gli venne un idea. Ritornò subito alla bottega e si mise al lavoro per tutto il giorno e tutta la notte. Aspanu ritornò all’alba del giorno dopo nella grotta del Diavolo con degli attrezzi. Gettò l’ancora , si accostò su un lato e legò la barca saldamente allo sperone di uno scoglio. Stando in piedi, cominciò a colpire energicamente la parete con martello e scalpello. Dopo qualche ora aveva piantato nella roccia due grossi anelli di ferro che aveva forgiato durante la notte, distanti quasi quanto la lunghezza della barca e tutti e due alla stessa altezza. Lo stesso fece sulla parete opposta. Poi stremato dalla fatica e dalla notte insonne tornò a casa. Il giorno dopo era di nuovo lì. Aveva creato un foro chiuso da un grosso tappo a leva sul fondo del gozzo e, avvicinatosi al cunicolo in fondo alla grotta del Diavolo, lo sbloccò cominciando ad imbarcare acqua. Quando la barca fu immersa nel mare quel tanto da poter passare sotto l’arco misterioso senza toccarne la volta, Aspanu tappò il foro, tolse l’ancora, si sdraiò nella barca semi allagata appoggiando le spalle e la testa sulla traversa a prora e le gambe su quella a poppa. Poi, con l’aiuto di un remo, puntandolo sul soffitto della grotta che in quel punto era abbastanza bassa, si avvicinò con la prora al cunicolo, dandone le spalle all’ingresso. Quando ci fu sotto con il viso, ritirò il remo e cominciò a far forza con le mani sulla volta rocciosa per spostarsi con la barca all’interno del ventre oscuro. Dopo diversi metri si ritrovò quasi completamente al buio. Così sdraiato, distingueva a malapena la silhouette dei suoi piedi contro la debole luce ormai lontana e intermittente della grotta del Diavolo, il fiato sospeso dalla paura di rimanere incastrato e morire in quel cunicolo angusto. E così fu, si era incastrato! Anche se al buio, intuì facilmente che doveva essere una prominenza della roccia che bloccava la punta della prora. Cominciò a tossire convulsamente. Preso dal panico, cercò di calmarsi. Chiuse gli occhi, trattenne il respiro e come senza volerlo gli apparve lo sguardo profondo di Sciabè, poi le sue labbra generose distendersi in sorriso. Rilasciò i polmoni e cominciò a respirare piano e regolarmente. Ripresosi, puntò le mani sulla volta del cunicolo e diede una forte spinta con la schiena cercando di spingere in basso e verso l’uscita la barca per disincagliarla. Dopo diversi tentativi riuscì, sudato e spaventato, ad esserne fuori. Una volta uscito, portò la barca al centro della grotta del Diavolo, fece passare quattro catene negli anelli di ferro che aveva incastonato nella roccia il giorno prima, e si mise all’opera per sollevare la barca dall’acqua tramite quattro pesanti e rozzi verricelli di ferro battuto che aveva forgiato, montato e poi fissato paralleli agli estremi delle due traverse di seduta. Prima si sedé al centro della traversa a poppa. Vi incastrò le gambe al di sotto puntando i piedi sul fondo della barca. In quella posizione, sbloccò di nuovo il tappo, afferrò le leve dei due verricelli ai suoi lati e le spinse cominciando a sollevare lentamente metà della barca, stando attento a dosare l’inclinazione per evitare che l’altra metà si immergesse, col rischio di imbarcare acqua. Funzionò. Spostandosi da una traversa all’altra e azionando a coppia i verricelli, in breve tempo sospese la barca al centro della grotta del Diavolo, si alzò in piedi e ne carezzò soddisfatto l’alta volta ormai a portata di mano, poi guardò in basso, fiero di sé, il mare domato. L’acqua vi scrosciava dentro strafottente, fuoriuscendo dal foro sul fondo e rimbombando fragorosa nella grotta. Infine chiuse il foro, calò la barca, ritirò le catene e remando tornò veloce alla bottega. Non si diede per vinto, sentiva che quella che aveva toccato non doveva essere la fine di quel cunicolo. Ci furono giorni di mare grosso ed Aspanu non stava nella pelle dalla voglia di ritornare alla grotta del Diavolo. In quei giorni di pausa insofferente, si recò al mercato per cercare una spessa e lunga fune, dei grossi stoppini e dell’olio da lampada. Si incontrarono di nuovo. Nonostante avesse già acquistato ciò che gli serviva, Aspanu continuò a girovagare per il mercato senza meta, solo per poter osservare di tanto in tanto Sciabè dietro la sua bancarella, incrociarne gli occhi e nutrirsi l’anima con la vista del suo viso solare. Infine non resse più l’emozione, il fiato cominciava a mancargli e tornò suo malgrado alla bottega. Sciabè lo seguì con lo sguardo fino a vederlo sparire con quella grossa fune stretta tra le mani e, quella notte, si svegliò in un bagno di sudore, preda dell’eccitazione. Aveva sognato di far l’amore con lui sopra una grande matassa di funi che passavano ruvide su tutto il suo corpo morbido, carezzandolo e a tratti costringendolo, dolcemente e lentamente. All’alba del primo giorno di mare calmo, Aspanu, sempre più deciso a scoprire cosa nascondeva quel passaggio apparentemente cieco, ritornò alla grotta del Diavolo. Ripeté le stesse operazioni, sbloccò il tappo dal fondo e allagò la barca. Prima di sdraiarcisi dentro, accese e pose una piccola lampada ad olio sulla prora. Quindi si distese ed entrò di nuovo nel cunicolo. Arrivò fino al punto dove si era incastrato e, come aveva messo in conto, toccò la roccia. Grazie alla lampada, inclinando la testa all’indietro, vide lo spessore che bloccava il passaggio della prora. Lo studiò al tatto passandoci le mani intorno, le braccia allungate dietro la testa. Era ampio ed occupava tutta la larghezza del cunicolo, ma dietro aveva sentito il vuoto, era come una grossa cortina. Tirò fuori mazzetta e scalpello che aveva avuto cura di tenere a portata di mano e, anche se in una posizione pressoché impossibile, cominciò a cercare di scalfire quell’ostacolo. Dopo qualche interminabile ora, sudando freddo, tra mille difficoltà, bruciandosi spesso con la lampada ed anche rischiando di farla cadere ed incendiarsi, il suo picchiettio fu interrotto dal tonfo di un grosso pezzo di roccia sulla prora che schiacciò la lampada ad olio, per sua fortuna spegnendone la fiamma. Al buio assoluto, con la sensazione orribile di essersi creato una tomba con le proprie mani cominciò disperato, e senza vedere, a colpire e a spingere la scheggia di roccia per liberare la barca. Finalmente la sentì andare e cadere in acqua con un tonfo, al di là della prora. Il suo viso sfinito di fatica e di paura fu subito illuminato da un lieve bagliore. Si spinse sotto l’apertura ancora per qualche attimo e finalmente se ne trovò fuori a mezzo busto. Dall’altra parte, anche se avvolto nella penombra, gli apparve uno spettacolo incredibile. La nuova grotta, nascosta nella grotta del Diavolo, aveva una volta altissima, era molto profonda ed abbastanza larga per passarci comodamente con due barche come la sua affiancate. Sulle pareti, gli scogli creavano delle forme contorte e fantastiche, come opere di uno scultore folle. Dalla volta scendevano stalattiti minacciose ma stupefacenti, gli sembrarono tante statue di Madonnine preganti a testa in giù. Dall’alto della parete di fondo, da un crepaccio, filtrava un unico raggio di luce che illuminava l’infrangersi di una cascatella d’acqua sorgiva su irregolari gradini neri di roccia vulcanica, ne seguiva la discesa e ancora, più in basso, il fluirne rapido a scivolare e mescolarsi con l’acqua di mare, in una penombra palpitante e silenziosa. Quel lieve scroscio d’acqua che aveva sentito giorni prima. Rimase estasiato ad osservare quelle meraviglie in silenzio qualche istante, sdraiato nella barca semi sommersa. Poi, con il cuore in gola per quella scoperta, rientrò a casa. Il giorno dopo, vedendo il mare calmo ripartì, entrò nella grotta del Diavolo allagò la barca e sparì nel cunicolo. Stavolta aveva creato due larghi e bassi ripiani, a prora e a poppa, dove aveva stipato diverse cose. Una volta dentro la seconda grotta gettò l’ancora. Accese una torcia e avvicinandosi ad una parete la incastrò tra gli anfratti. Si arrampicò e cominciò a piantare quattro nuovi anelli di ferro nella roccia come aveva fatto nella grotta del Diavolo. Dopo ore di lavoro aveva finito. Passò le catene negli anelli e sollevò la barca con i verricelli, lasciandola sospesa a finire di svuotarsi. Poi, arrampicandosi sulle pareti aiutandosi con la fune, cominciò a trovare delle conche adatte a contenere dell’olio da lampada che aveva trasportato in bottiglie e a versarcelo dentro. Vi immerse gli stoppini e li accese uno per uno. In poco tempo la grotta fu illuminata a giorno. Fu uno spettacolo talmente forte che cadde seduto bocconi sulla barca sospesa. Tutta la grotta aveva preso una luce d’oro che sfumava a perdersi verso su, negli angoli acuti più oscuri. Miriadi di riflessi si formavano sulle rocce e le stalattiti al mutar forma delle fiammelle. Si riusciva a vedere perfettamente il fondo sotto il mare limpido, roccioso, anch’esso fantasioso nelle forme, dovevano essere cinque o sei metri di profondità. Vide piccoli abitanti muoversi, affacciarsi incuriositi per poi tornare a nascondersi, un bellissimo grosso polipo danzante spostarsi calmo da una roccia all’altra, branchi di pesci multicolore balenanti apparire e sparire, minuscoli occhietti luminosi spiarlo a tratti, come tante stelline cadenti. Era pieno di ricci e grossi frutti di mare, dovevano essere ostriche. Nel silenzio assoluto, appena scalfito dal leggero scroscio della cascatella, gli sembrò di udire una musica lontana, come una specie di melodia composta da una sola nota, con una cadenza ritmica abbastanza regolare da sembrare opera di un musicista. Guardò verso un piccolo anfratto vicino l’entrata della grotta. Quel suono particolare gli sembrava provenire da lì. Si immerse e si avvicinò nuotando. Il mare, con il suo lento movimento, penetrando attraverso uno scoglio di lava contorta e bucherellata, ne soffiava l’aria all’interno creando quella dolce, monotona e al contempo perfetta composizione. Nei giorni successivi Aspanu trasportò tante altre cose nella sua grotta. Portò delle assi di legno che appoggiava sulla barca sospesa in modo da creare un piano ed anche dei cuscini. Passava intere giornate a riposare in quel paradiso. Ogni tanto si tuffava per prendere un ostrica, aprirla e berla per poi continuare a riposare, ammirando le splendide stalattiti preganti a testa in giù, sopra di lui. L’acqua della cascatella era dolce e ghiacciata. Ci si sedeva sotto per tuffarsi, subito dopo, in quella salata che anche essendo fredda sembrava calda al confronto. Mancava qualcosa. Sdraiato tra i cuscini il suo pensiero andava sempre a Sciabè. Quanto avrebbe voluto la sua compagnia in quei momenti. Si rese conto che durante i momenti più difficili nel realizzare quell’impresa non aveva pensato che a Sciabè. Forse era grazie a Sciabè e per Sciabè che aveva fatto tutto questo. Sì, era così. Venne Agosto e Aspanu decise che avrebbe portato Sciabè nella Grotta Paradiso. Così l’aveva chiamata. Ed il cunicolo era il Purgatorio. Loris che è rimasto incredibilmente muto fino a quell’istante, catturato dal racconto di Alfio, esplode: «AH! Ora la storia si fa molto interessante! C’è la parte a luci rosse? Le ostriche….Eh?». «E smettila scemo! Lasciami finire. Aspanu non sapeva come accostare Sciabè. Era timido e a parte mantenere per un po’ il suo sguardo e ad arrossire non riusciva a fare altro. Si scervellò per trovare una soluzione e alla fine la trovò. Tornò in bottega e si mise a disegnare con del carbone su un pezzo di tela. Aspanu sapeva che Sciabè fosse analfabeta. Quindi cominciò a tracciare una mappa della baia: il tragitto e la sua barca con un puntino sopra fino ad una cala che era poco distante dalla casa di Sciabè, poi il tragitto della barca con due puntini sopra fino alla grotta del Diavolo e una rappresentazione grezza di un nascondiglio sconosciuto a tutti tranne che a lui. Quella era la parte che gli riusciva più difficile, come poteva renderla con un disegno? Infine si rassicurò, pensando che in fondo poteva sembrare una semplice gita notturna in barca. Per indicare l’ora e il giorno Aspanu usò i numeri romani perché immaginava che Sciabè, vivendo anche di commercio, sicuramente i numeri li conosceva. Dopo tanti tentativi e tele bruciate, arrotolò la stoffa e la infilò in una bottiglia di vetro scuro, infine vi versò dell’olio e la tappò con un sughero. Il giorno dopo, sapendo che Sciabè avrebbe portato la bancarella in un paese vicino, vi si recò stringendo in mano la bottiglia. Giunto al mercato, fece finta di studiare titubante la merce sulle bancarelle fino a che non fu davanti a quella di Sciabè che, vedendolo arrivare, aveva già sfoderato il suo splendido e largo sorriso. Aspanu aveva notato quell’improvviso rossore sul suo viso, cosa che gli aveva aumentato i battiti cardiaci quantomeno del doppio. Gli si parò davanti e, non riuscendo a reggere più di tanto il suo sguardo, afferrò una pagnotta dalla bancarella con una mano porgendo la bottiglia d’olio con l’altra a Sciabè, riuscendo a fissarne solo le labbra. Sciabè, normalmente non avrebbe mai accettato un pagamento tramite baratto dal primo venuto senza neanche chiedere cosa ci fosse dentro quella bottiglia ma, in quel caso, intuì le intenzioni e rimase in silenzio. La prese così lentamente che Aspanu fu sicuro di sentire il suo calore attraverso il vetro. Rosso come una pesca matura, riuscì a sagomare un rapido ghigno e si girò sui tacchi allontanandosi stringendo forte sotto il braccio la pagnotta ancora calda che scricchiolò fragrante sotto la sua terribile impacciata morsa. Sciabè rimase a seguirlo con lo sguardo intontito, fino a distoglierlo verso qualcuno che ormai, dopo l’ennesima volta, invocava a squarciagola il prezzo di qualcosa. Rispose il prezzo stizzendo e rivolse di nuovo lo sguardo nella direzione di Aspanu ma lui era sparito. Riuscì a intravedere qualche briciola a terra, tra i piedi dei passanti, sorrise. A casa, Sciabè svuotò febbricitante la bottiglia ed estrasse la tela intrisa d’olio per distenderla sul tavolo. Una calda notte d’agosto illuminata da una grossa mezza luna, prima di mezzanotte, Aspanu uscì piano dal letto e poi di casa. Si mise in barca e remò fino alla cala dove avrebbe dovuto prendere Sciabè. Arrivò ed era deserta. In fondo se lo aspettava. Come poteva sperare che qualcuno potesse prendere sul serio tutta quella follia? Quindi rimase a guardare ansioso la riva per qualche minuto, poi, pentito e sentendosi un fallito, cominciò a remare per tornarsene a casa. Dopo soli due colpi di remi verso il mare aperto fu investito da una spruzzata d’acqua sulla schiena, seguita da un’armoniosa risata. Sciabè era in acqua, che nuotava dietro la barca. Aspanu, con gli occhi luminosi, ridacchiando emozionato ed impacciato, issò Sciabè sulla barca come fosse un filo d’alga, depose quel tesoro delicatamente sulla traversa di poppa e cominciò subito a remare verso la grotta del Diavolo come un forsennato. Sciabè cominciò timidamente a porgli domande ma Aspanu continuava a remare energicamente sorridendo, senza mai parlare, al punto che Sciabè, quando le sue domande si fecero insistenti senza mai ricevere risposta, fece la mossa di buttarsi in acqua ma, Aspanu pronto, mollò di scatto i remi e afferrò saldamente i suoi polsi dicendo: «Se adesso vieni con me, tu vedrai il Paradiso.». Sciabè resisté per un attimo, poi si perse negli occhi lucidi e folli dalla passione di Aspanu, si perse nella sensazione della incredibile quantità di forza residua nascosta e perfettamente dosata di quelle enormi mani strette intorno ai suoi polsi. Si rilassò sulla traversa lasciandosi trasportare dondolante verso il largo, gli occhi semichiusi ed un beato sorriso. Aspanu, vedendolo, raddoppiò senza accorgersene la forza delle sue vogate. Giunti nel buio della grotta del diavolo, sbloccò il tappo e la barca cominciò ad allagarsi sotto lo sguardo spaventato di Sciabè che ora, quasi nell’oscurità, sentendo l’acqua fredda salire sui piedi, aveva perso il suo sorriso. In trappola fra l’attrazione, la curiosità, l’oscurità e lo sgomento di non aver capito una parte del disegno di Aspanu sulla tela intrisa d’olio, non riusciva più ad emettere alcun suono. Lui sembrava un pazzo in quel momento ma ormai sentiva che non avrebbe più avuto la forza di scappare. A quel punto, Aspanu, accorgendosi finalmente dell’agitazione di Sciabè dal suono del suo respiro affannato, si rese finalmente conto che doveva condividere ciò che stava facendo. Prese una piccola lampada ad olio, l’accese e la pose a prora, dietro di sé. Poté vedere così il viso inquieto di Sciabè che invece vide la magra silhouette di Aspanu, cominciare timidamente a dettare le operazioni e le regole per passare dal cunicolo Purgatorio dentro grotta Paradiso. Quando la barca fu immersa al punto giusto, bloccato il tappo, invitò Sciabè a sdraiarsi al suo fianco. Entrarono nel cunicolo. Sciabè, con gli occhi serrati dalla paura, avvinghiò la mano di Aspanu che, per poter avanzare, continuò a spingere sulla volta con una mano sola. Arrivati quasi dentro, Aspanu, prima che Sciabè potesse vedere qualcosa, sussurrò qualche parola sfilandosi fuori dalla tasca un pezzo di tela nera. Sciabè sentì le sue mani veloci intorno alla testa e il contatto della tela sopra gli occhi. Poi al buio pesto, con la pelle d’oca, ascoltò prima il tonfo dell’ancora, poi rumori di catene, dopo un po’ si sentì sollevare con la barca, prima a prora e poi a poppa, sentì l’acqua abbandonarle i piedi e scrosciare sotto la barca rimbombando nella grotta, quindi avvertì come un bagliore crescere dietro gli occhi coperti, infine sentì le mani di Aspanu allentare la stretta della benda e finalmente vide il Paradiso. Aspanu aveva acceso tutte le lampade create nelle varie conche tra le rocce. Era davvero il paradiso. Mentre lui raccontava tutta la sua impresa e descriveva i particolari di grotta Paradiso, Sciabè ammirava, in silenzio, tutte quelle meraviglie. Aspanu, quindi, prese le assi e cominciò a montare il piano sulla barca ma non prese i cuscini, che aveva nascosto dentro una sacca in un anfratto. Timido, si decise a farlo quando Sciabè, dopo tanto che parlavano, cominciò a spostarsi spesso, manifestando l’insofferenza del suo povero fondo schiena a quel piano di legno duro. Restarono tutta la notte a parlare osservando le Madonnine appese pregare all’ingiù, ad immaginare soggetti nelle forme bizzarre delle rocce sulle pareti e a studiare la vita degli abitanti della grotta guardando il fondo, sdraiati sui cuscini e affacciati con la testa all’ingiù. Ad un certo punto, mentre erano sdraiati in silenzio e finalmente cominciavano a sfiorarsi le mani, Sciabè sentì quella lieve melodia di una sola nota creata dal mare soffiante nella roccia lavica di cui Aspanu non aveva ancora parlato e cominciò ad improvvisarci sopra, armonizzandola con la voce. Aspanu rimase incantato ad ascoltare finché non smise sorridendo. Implorò affinché continuasse e Sciabè si accorse che aveva la guancia rigata da una lacrima. Lo guardò teneramente e riprese a cantare. Continuarono a sfiorarsi e a parlare tutta la notte finché non intravidero un barlume dell’unico raggio di luce che entrava in grotta Paradiso e capirono che era quasi l’alba. Partirono di corsa dandosi un nuovo appuntamento. Era la metà di agosto, la luna quasi piena ed il mare una grande tavola. Aspanu arrivò verso mezzanotte alla cala di Sciabè che stavolta lo aspettava sulla riva con una sacca piena. Aveva portato del vino, pane e delle cose da mangiare. Già quando furono nel purgatorio, mano nella mano, alla fievole luce della lampada di prora si guardarono ed esplose la passione, cominciarono a baciarsi avidamente nel Purgatorio e quando Aspanu riuscì a fatica a trasportare la barca nel Paradiso non poté iniziare le solite operazioni, scivolarono avvinghiati in acqua, Sciabè fece in tempo ad afferrare la fune e ad avvolgerla freneticamente intorno ad Aspanu stingendoselo a se, fecero per la prima volta l’amore, contro le rocce, incuranti dell’acqua gelida e dell’oscurità, unica luce la piccola lampada posta sulla prora. Tempo dopo erano sdraiati insieme, nudi, sul talamo sospeso a riprendere fiato sotto il colore dorato delle torce. Sciabè tirò fuori dalla sacca il suo famoso pane ed il suo vino, Aspanu si tuffò per prendere delle grosse ostriche e qualche riccio di mare. Si rifocillarono e ripresero a far l’amore, stavolta più dolcemente. Sciabè si abbandonò nell’ampio e lento gorgo dell’immensa forza teneramente dosata di Aspanu. Lui si sentì come un delfino che nuota senza meta, volando fuori in una brezza tiepida e rituffandosi dentro in un oceano caldo, senza avere più timore di quel mare aperto che, un giorno, aveva inghiottito suo padre. Si addormentarono e Aspanu fece un sogno che poi raccontò a Sciabè. Facevano l’amore precipitando in un pozzo che attraversava la terra da un emisfero all’altro, uscivano da una parte, rimanevano sospesi per un istante in aria e poi ricadevano nel pozzo di nuovo uscendone dall’altra, all’infinito, era bellissimo e vertiginoso ma a un certo punto lui si trovava da solo in quel precipitare perpetuo e si sentiva soffocare. Sciabè gli disse che poteva essere il ritmo del suo respiro la causa di quel sogno. Gli disse che lui non respirava bene durante il sonno e che avrebbe fatto meglio a smetterla con il lavoro di fabbro. Continuarono ad incontrarsi fino ad un giorno di metà settembre. Aspanu, da diverso tempo, stava lavorando al progetto di un meccanismo per issare le pesanti reti piene di pescato sopra i pescherecci. Pensava che se avesse funzionato sarebbe stato abbastanza ricco per fuggire e portare con sé, lontano dal quel villaggio di malelingue , il suo tesoro. Subito dopo il loro primo appuntamento si era messo in testa di finire rapidamente quel progetto per fare una sorpresa a Sciabè, che non sapeva ancora nulla. Stava tutto il giorno sulla fucina accesa a forgiare il ferro e gli era venuta una tosse insistente, giorni prima aveva avuto anche la sensazione di perdere il respiro che per fortuna era passata quasi subito. Quella notte di settembre, mentre dormivano nella grotta Paradiso, Sciabè aprì gli occhi, il sonno rotto da un sordo rumore e una scossa della barca sospesa, il livello del mare scendeva e risaliva fino a lambirla, fuori si era scatenata una tempesta. Guardò lui che ancora dormiva e notò che aveva il respiro corto ed affannato. Lo svegliò a fatica, aveva gli occhi rossi e non riusciva a parlare, respirava malissimo. Lo fece bere, gli bagnò il viso ed il corpo sudato ma il suo respiro peggiorava. Quindi cercò di soffiargli aria nei polmoni ma senza risultato. Quando vide che stava per perdere i sensi ebbe la terribile certezza che avrebbe potuto perderlo. Gli disse, singhiozzando in preda al terrore, che stava per tuffarsi a nuoto per andare a chiedere aiuto. Lui cinse i suoi polsi con le mani ma stavolta la presa era debole e non ebbe abbastanza fiato per dire che gli sarebbe passata, che di lì a poco sarebbe stato bene. Rimase con gli occhi semichiusi , impotente ad osservare con lo sguardo appannato Sciabè legarsi il capo della fune alla caviglia, l’altro alla barca e tuffarsi in acqua. Perse i sensi. La marea era alta, il cunicolo sommerso. Prese quanto più fiato poté e si immerse. Riuscì a passare il cunicolo a fatica per via della forte corrente graffiandosi contro le pareti e finalmente emerse dall’altra parte, quasi senza fiato e tossendo acqua salata. Il mare saliva e scendeva paurosamente nella buia grotta del Diavolo. Nelle tenebre, si aggrappò ad una sporgenza della parete per riprendere fiato ma riusciva a farlo a intermittenza perché il livello dell’acqua superava a tratti la sua testa. L’uscita, quasi sempre sommersa, lasciava intravedere ogni tanto i lampi sopra il mare in tempesta. Si fece coraggio, prese forte il fiato e si immerse nel fondo oscuro. Nuotò sott’acqua verso l’uscita tenendo gli occhi aperti, cercando di orientarsi con il bagliore dei lampi. Quando, ormai senza fiato, ebbe l’impressione di essere finalmente fuori, salì in superficie. Mancava pochissimo, una brevissima distanza fatale. Il livello del mare in tempesta si sollevò proprio nell’attimo in cui stava emergendo. Batté violentemente la testa sotto l’apertura della grotta, perse i sensi ed affogò. Poco dopo un onda più forte incastrò il suo corpo esanime e abbandonato all’esterno della grotta, fra gli scogli. Aspanu si svegliò ore dopo di soprassalto, tossendo, con un forte bruciore al petto. Afferrò con il cuore in gola la fune che Sciabè aveva legato alla caviglia prima di sparire nel cunicolo e la tirò con forza. Era tesa. Per un attimo fu rincuorato. C’era silenzio, il raggio di luce non era ancora entrato in grotta Paradiso, segno che fuori era ancora buio, il mare era abbastanza calmo per riuscire ad uscire. La tempesta forse non era stata così forte, forse faceva ancora in tempo a fermare Sciabè. Sarebbe stato un guaio se fossero stati scoperti. Calò veloce la barca, accese la lampada ad olio, la poggiò sulla prora ed uscì dal cunicolo tirandosi fuori con la fune. Vide la corda uscire all’esterno della grotta del Diavolo. Sicuramente Sciabè l’aveva legata fuori per facilitare il suo salvataggio. Issò la barca per svuotarla aiutandosi con le mani per fare prima. La calò, e continuò a tirare la fune trasportandosi verso l’uscita, seguendone inquieto il percorso. Uscito dalla grotta vide la fune sparire nella scogliera. Gettò l’ancora e si buttò in acqua, afferrò la fune e la seguì al buio con le mani tirandosi verso gli scogli, fino a che toccò un piede gelido. Urlò di dolore. Andò forsennato a tentoni cercando il suo viso fra le rocce ferendosi le mani. Gridando il suo nome e piangendo cominciò a disincagliare il suo corpo ghiacciato, sciolse la fune dalla caviglia e finalmente depose Sciabè sulla barca. Strinse dondolando il suo morbido corpo freddo ed esanime per il resto della notte cercando di scaldarlo e riattivarlo con il suo calore, mormorando ed ogni tanto canticchiando tra i singhiozzi le frasi con cui Sciabè usava accompagnare quella melodia di una nota sola creata dal mare e dai fori della roccia lavica in grotta Paradiso. Giunta l’alba remò per un po’ verso il largo, abbracciò Sciabè e si legò al suo corpo con la fune. Poi girò la fune intorno a una traversa e la legò sulle sue cosce. Infine sbloccò il tappo. La barca di Aspanu affondò rapidamente sotto il peso dei verricelli e delle catene.». Finito il racconto Alfio, stupito che Loris sia stato in silenzio per tutto quel tempo, si gira e lo guarda. «Loris! Ma che stai piangendo?». «Cavolo Alfio! E ci credo! È una storia tristissima. Bella sì, ma tristissima. E pure inquietante. Credo che per un pezzo non andrò in gommone con mio zio». Alfio lo guarda sorridendo. Restano qualche minuto in silenzio ad osservare i galleggianti immobili. Alfio ha l’impressione che Loris sia inquieto e gli fa: «Vedo che la mia storia ti ha colpito Loris, ora voglio farti una domanda, ma mi devi rispondere sinceramente, dal fondo del cuore.». «Va bene. Spara.». «Vorrei che tu mi dicessi come ti sei immaginato il personaggio di Sciabè, insomma, come te lo sei raffigurato.». Loris titubante: «In che senso, fisicamente? Mah… una donna di mezz’età, bionda, formos…». «Hai detto una donna. Sei sicuro?». «Eh? Che vuoi dire! Certo che ho immaginato una donna, che altro dovevo immaginare? Sei tu che hai descritto una donna.» «No. Ti sbagli, se hai ascoltato bene, avrai notato che non ho mai fatto riferimenti al suo sesso in nessun modo. Non ho mai usato un pronome, un verbo o un aggettivo al femminile.» Loris a quel punto comincia ad alterarsi: «Mi stai dicendo che Sciabè era un culattone? Mi hai raccontato la storia di due culattoni?». «Ecco qua… culattoni…. Non ti innervosire, ti ho solo fatto una domanda. Sei libero di immaginare questa storia come vuoi. Ti dico solo che da queste parti “Àspanu” è il diminutivo di Gaspare e “Sciabè” è usato come diminutivo di Saverio. D’altra parte è un nome che non starebbe male neanche ad una donna . Non credi? E poi anche se fossero stati due “culattoni”, non ti avrebbe colpito lo stesso questa storia?». «No! Per niente! Anzi, si può dire che me l’hai bella che rovinata! Ma che cavolo ti passa per la testa?». «Perché ti scaldi tanto? E poi è curioso che tu abbia detto che ti sei immaginata Sciabè bionda. Anche tu sei biondo.». «E questo che cavolo c’entra? Cos’è uno scherzo questo? Eh? La finisci qui ‘sta storia? O me ne devo andare?». «Insomma Loris, possibile che non riesci a vedere? Perché! Perché sono anni che tu vieni in vacanza e regolarmente noi due, invece di fare come gli altri che vanno a cercarsi le donne, veniamo fin qui ad appartarci e a passare tutte le serate senza prendere quasi mai neanche un misero pesce? Io ho capito e adesso so quello che provo.». «Ma… ma… ma sei impazzito? Cosa mi fai adesso, una dichiarazione? Io credevo che venivamo qui perché siamo grandi amici. Mi stai facendo uno scherzo vero Alfio? Dimmi che è uno scherzo e ci ridiamo sopra eh?». Loris comincia a ridere forzatamente ed Alfio, calmo, sereno e più serio che mai lo smorza subito fissandolo serio e gli risponde: «No. Non è uno scherzo. Tu mi piaci. E so che anch’io ti piaccio. Fai solo fatica a vederlo per colpa del tuo ambiente, soprattutto familiare. Tuo padre, tua madre, i tuoi fratelli, tuo zio, i tuoi amici non potrebbero mai accettare una cosa del genere e tu lo sai bene. Non mi hai mai sognato Loris? Dimmi la verità. Io l’ho fatto e non me ne vergogno.». A quel punto Loris è bianco, balbetta qualcosa, molla la canna a terra e fa per alzarsi ma Alfio, che è molto più forte, gli prende i polsi, glieli stringe forte e lo blocca a terra seduto. Poi gli sussurra guardandolo con gli occhi lucidi: «Se adesso verrai con me, tu vedrai il paradiso.». Loris per un attimo sembra perdere i sensi, socchiude gli occhi. Alfio trepida aspettando il largo sorriso di Sciabè ma si illude solo per poco, l’altro, come ripresosi da una seduta di ipnosi, spalanca gli occhi di scatto, si divincola violentemente, si alza in piedi, prende la sua pila, illumina il viso di Alfio e comincia ad insultarlo pesantemente: «Mi fai schifo!!! Me lo potevi dire prima che eri un culattone schifoso!!! Bastardo!!! Traditore!!! E io che credevo fossi un amico!!! Per tutti questi anni!!!». A quel punto sotto lo sguardo profondo e imperturbabile di Alfio che intanto ha anche lui acceso e puntato la pila sul suo viso, Loris non ci vede più dalla rabbia. Sferra un calcio alla mano di Alfio gettandogli la pila in mare, poi da un altro calcio alla scatola di vermi scaraventandogliela sulla faccia che nonostante ciò mantiene sempre la stessa imperturbabile espressione. Quindi rimane a guardarlo con la pila puntata e l’espressione tra il colpevole, l’inorridito e l’esterrefatto. «Mi fai schifo…», sussurra . Poi raccoglie lo zaino e fugge via, lasciando Alfio senza luce a seguirlo con lo sguardo mentre la luce traballante della pila si allontana perdendosi su per il sentiero. Per fortuna c’è la luna. Pensa Alfio. Si ripulisce il viso, raccoglie le cose e lentamente si avvia per tornare verso casa. Non si rivedranno più. Loris da quel giorno comincia ad avere un incubo ricorrente: è con Alfio, e devono attraversare una lunga spiaggia ai piedi di un costone invalicabile. Fa scuro rapidamente, sta salendo la marea e la spiaggia si assottiglia fino a che sono costretti a camminare quasi al buio sugli scogli. Si gira verso il mare e vede all’orizzonte un onda enorme scura e minacciosa che avanza. Si gira di nuovo e vede Alfio con il fango ed un verme pendulo sul viso che gli porge la mano per tirarlo su uno scoglio più alto ma lui, impressionato, si volta di nuovo verso il mare, l’onda è più vicina e sempre più alta. In preda al panico si gira di nuovo verso Alfio ma lui non c’è più. L’onda gigantesca sta per travolgerlo, si sveglia di soprassalto ed ogni volta ha l’impressione di sentire l’eco di una melodia monotona che non riesce mai a riconoscere, fatta di una sola nota. Passano gli anni. Una mattina d’estate Alfio è al chiosco del porto, sta leggendo il giornale. Gira pagina e legge di un uomo trovato morto annegato in un canale su al nord. Riconosce Loris. Lascia la moglie e una bambina di due anni. Qualcuno lo ha visto camminare ubriaco e canticchiare da solo accanto al canale poco prima che sparisse. Non è chiaro se si tratti d’incidente o di suicidio. Carmelo, la sua Sciabè, gli porta una tazzina di caffè. Lo vede fissare quella notizia di cronaca, si avvicina, legge e poi fa: «Povera bimba, che rimane senza il papà… o magari è meglio, chissà… magari era uno stron…». «Smettila!», lo gela Alfio, «Non mi va di scherzare sui morti.» Carmelo zittisce e si allontana alzando le mani dopo aver poggiato il caffè sul tavolo per Alfio che fissando quella piccola foto ha un flash improvviso. Rivede loro due da piccoli e la cicala che sparisce zigzagando goffa contro il sole con la pagliuzza infilata su per il dorso, risente la risata di Loris sguaiata e contagiosa. Sorride per un attimo, poi si scurisce subito. Gli cade una lacrima, due. Le chiude nel giornale, si asciuga gli occhi veloce, tira su col naso mentre prende la tazzina, si alza e va, l’espressione seria e imperturbabile verso Carmelo che, offeso dalla sua reazione, è appoggiato al parapetto picchiettando le unghie sulla sua tazzina con lo sguardo perso verso il mare. Mentre la radio del chiosco suona “Samba de Uma Nota Só”.