Una calda e generosa slinguata in faccia gli proiettò l’ultima scena di quell’incubo ricorrente, l’impatto inevitabile di un’onda gigantesca, senza possibilità di fuga. – Baffo! Diavolo di un bastardo, è colpa tua se non faccio che sognare tsunami. – biascicò svegliandosi e asciugando la faccia nel cuscino mentre il cane, in effetti un simpatico bastardo di media taglia peloso come un Bobtail e pezzato come le mucche delle pubblicità di derivati del latte, lo guardava scodinzolando in attesa di qualcosa che, dal tipo di effusioni, non pareva affatto essere il pasto o la solita scorrazzata nel cortile.
Non era un momento facile, era di nuovo crollato sul divano davanti alla TV, guardandovi attraverso meditabondo tra una lattina di birra e l’altra, pensando all’unica mossa possibile per un pedone di cinquant’anni separato e rimasto senza lavoro come lui.
Tessere di vita
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I tempi dell’occasione di saltare due caselle anziché una erano lontani. Provava per la prima volta nella vita cosa significa sentirsi un pezzo sacrificabile nella scacchiera dell’esistenza. Doveva smettere di considerarsi un pedone o quanto meno, illudersi che non lo fosse, in qualche modo forse lo avrebbe aiutato. Una vita intera da dipendente, se non era per un capo era per l’alcol, anche se mai esagerando, come per il fumo. Sarebbe stato difficile. Avvertiva forte nelle gambe l’ansia del tramonto dell’energia osservarlo beffarda e inesorabile nella nebbia della rassegnazione d’aver superato il mezzogiorno della sua vita. Per fortuna c’era Baffo. – Ho capito cosa vuoi, razza di mocho sbiasciante. – La luce e i suoni che filtravano dall’esterno davano l’impressione di una di quelle giornate talmente nitide da voler rimproverare i sensi tardivi ad adattarsi. Quegli ultimi due giorni di ottobre aveva piovuto quasi senza interruzione. Preparò e mise la caffettiera sul fornello, quindi, sospinto dall’irrequieto quanto festoso Baffo, spalancò la porta di casa ricevendo in pieno viso tutta la potenza di quel mattino così limpido che era sul punto d’esplodere, sembrava di sentire il rumore del sole. Baffo, dopo aver ispezionato spedito il cortile e l’aiuola dei limoni si era appeso con le zampe anteriori al cancelletto, esprimendo chiaramente che era oltre quell’ultimo ostacolo che risiedeva la vera felicità: la sua adorata spiaggia dorata. Il sabato mattina e con quel sole splendente la spiaggia sarebbe stata sicuramente affollata, avrebbe dovuto tenere Baffo al guinzaglio e l’idea di essere trascinato dall’esuberante quadrupede a velocità da flipper non lo attirava per niente, ma come l’avrebbe detto al mocho che lo guardava speranzoso e scodinzolante ormai appeso al cancelletto? Volse lo sguardo alla collina che separava in due la costa, a destra la spiaggia delle loro passeggiate, con tutti i suoi lidi ordinati, chiusi in attesa della stagione balneare successiva, a sinistra la spiaggia di serie b ferita dall’ampia foce del fiume, traguardo estivo di umanità meno abbiente, fuori stagione era desolata e vittima delle piene che la ricoprivano di ogni tipo di residuo trascinato, strappato alla terra dalla forza del fiume che ne rapiva anche il colore. Baffo non ce lo aveva mai portato. Pensò che la pioggia non era stata così forte e che la spiaggia in fondo poteva essere decente. L’ombra del flipper, il suo mal di testa e l’irrequietezza latente di dover rompere con le abitudini, spostarono l’ago a sinistra della collina. Si fermò a distanza dalla foce, al bordo della pineta che separava i campi incolti dal mare. Non fece in tempo ad uscire per aprire lo sportello a Baffo che quello saltò fuori dal finestrino prima che l’auto fosse ferma, guadagnandosi una maledizione. L’indiavolato sparì nella pineta assieme agli inutili concitati richiami. Cominciava a pentirsi per quella scelta, prese il guinzaglio, chiuse l’auto e si lanciò all’inseguimento. Trafelato nel mezzo della pineta gli giunse l’abbaiare ostinato di Baffo coperto a tratti dal fragore del mare che doveva essere bello mosso. Gli si presentò una scena piuttosto comica, a una decina di metri dalla riva un grande tronco beccheggiava smosso dalle onde protendendo minaccioso i rami verso Baffo che ne seguiva il movimento facendo avanti e indietro, abbaiando e ringhiando inferocito quanto atterrito da quel drago ligneo rigurgitato dal fiume. Durò il tempo di adocchiare un gruppo di gabbiani e lanciarvisi contro latrando a palla di cannone. Al contrario di quanto aveva supposto, la piena era abbondante, il mare era color fango e c’era stata una forte mareggiata, la spiaggia era piena di ogni tipo di relitto di origine umana e naturale. Quanto era stata stupida la sua ipotesi sulla quantità di pioggia di quei due giorni, i fiumi sono lunghi e l’acqua che cade può essere più o meno intensa già di quella a qualche chilometro da te. Riconobbe in lontananza la sagoma di ciò che sembrava essere un animale morto arenato sulla spiaggia. Baffo andava dritto in quella direzione. Non osava neanche immaginare cosa avrebbe fatto quel disgraziato, quindi cominciò a correre sgolandosi per richiamarlo. Per fortuna arrivò giusto in tempo per dissuaderlo dall’avvicinarsi. Era una povera pecora così gonfia che sembrava stesse per esplodere, con le quattro gambe puntate verso il cielo gli sembrava esprimere come un macabro gesto di vittoria, era come se gli gridasse – Son finite le mie pene, sono libera finalmente! – Questo gli fece venire scuri pensieri che ultimamente lo tormentavano. Decise che era il momento di farsi una corsetta insieme a Baffo ed allontanarsi il più possibile dalla foce. Quando il fiato stava cominciando a venirgli meno ed era quasi sul punto di fermarsi, percepì una forma inusuale sulla quale stava per affossare i piedi e la superò con un salto che lo fece finire sfinito seduto sulla sabbia. Sì voltò e vide diversi sacchetti di plastica appiattiti nella sabbia, ognuno dei quali conteneva sassolini, conchiglie e frammenti, tappi di bottiglia, pezzi di plastica, vetrini e quant’altro si può trovare su una spiaggia di minuto, diviso rigorosamente per colore. Notò anche delle orme che puntavano verso la pineta. Non vide più Baffo e cominciò a chiamarlo ma niente, del peloso neanche l’ombra. Preoccupato cominciò a seguire le orme, vicino c’erano anche quelle di un cane, certamente Baffo. Proprio alla fine della spiaggia prima della pineta, appena aggirato un cespuglio se lo trovò davanti che si abbeverava da un mezzo pallone di gomma pieno d’acqua accanto ad un vecchio con una specie di impermeabile verde e rattoppato che lo carezzava sereno. Si avvicinò a loro dicendo buongiorno, il vecchio ci mise un po’ a rispondere, in francese e senza degnarlo di uno sguardo. Doveva essere un Senegalese, da quelle parti ce ne erano molti che giravano, soprattutto l’estate come venditori ambulanti sulle spiagge. Richiamò subito il cane, d’istinto, ma sembrava che Baffo non ne volesse sapere, continuava a prendersi quelle carezze come ammaliato, allora si avvicinò protendendo il guinzaglio ma sia il cane che il vecchio lo guardarono con aria delusa. Il vecchio si alzò in piedi e sorridendo gli fece capire con la sua lingua babelica mista di dialetto locale e francese che non era il caso, che gli animali vanno rispettati, e si incamminò verso la spiaggia seguito da Baffo. Sollevò lo sguardo in aria infastidito e li seguì, quel Giuda di un cane sembrava già aver cambiato padrone. Il vecchio si mise a sedere vicino alle buste piene di frammenti colorati e Baffo si accucciò accanto a lui. Tentò ancora di richiamarlo mostrandogli il guinzaglio ma ormai era come se non avesse più potere su lui. Il viso sereno e magnetico del vecchio e il fatto che era tanto tempo che non vedeva Baffo così tranquillo, fecero presa e si mise a sedere. Il vecchio gli chiese come si chiamava il cane e lui, visto che non riusciva a fargli capire il nome con le parole, fece il gesto di attorcigliarsi un baffo immaginario e quello scoppiò a ridere toccandosi i suoi, grigi sopra la lunga barba. Dopo una lunga pausa il vecchio cominciò a parlare indicando il mare, se stesso e i frammenti colorati. Quello che lui riuscì a carpire gli diede l’idea che il destino avesse sospinto quel poveraccio fuori dal senno. Diceva che sua figlia, il marito e i loro due bambini, i suoi nipoti, erano nel mare, che il mare stesse poco a poco restituendoglieli e lui li raccoglieva ogni giorno pazientemente, da anni. Sua moglie invece sembrava essere aldilà dell’orizzonte, verso sud. Il vecchio tracciò delle verticali con la mano perpendicolare all’orizzonte, prima verso il cielo, poi verso terra, poi di nuovo verso il cielo, quindi pose la mano sul petto e respirò profondamente ad occhi chiusi, come se solo quella brezza potesse restituirgliela. Cominciava a sentirsi male in quella situazione, lo inquietavano quel vecchio e il suo destino, gli facevano riaffiorare il suo che quel giorno voleva proprio dimenticare. Fece per alzarsi risoluto, voleva prendere Baffo e tornarsene a casa ma il vecchio gli afferrò un polso e lui rimase così stupito dalla forza insospettata e dalla vista di quegli occhi lucidi e imploranti che rimase a fissarlo. La stretta si sciolse, il vecchio si alzò in piedi chiedendogli di aiutarlo a prendere le buste e seguirlo. Si inoltrarono nella pineta, il vecchio si fermava ogni tanto a raccogliere arbusti e a metterseli sotto il braccio finché non ne fece una fascina. Arrivarono ad un piccolo scheletro in cemento armato fatiscente, con i ferri arrugginiti a vista, corroso dall’aria di mare e nascosto in un’area della pineta che era piena di cespugli. Il vecchio sospinse la porta, una pedana di legno incardinata e tessuta dai rampicanti. C’era una sola stanza, in terra un materasso poggiato su un consunto scafo in vetroresina e sul lato, vicino l’apertura di una finestra, un focolare su cui aveva ricavato una sorta di cappa fatta di lamiere in metallo ritorte ed accostate. Il vecchio sistemò gli arbusti, accese il fuoco e lui percepì l’ingegno di quel precario adattamento. Più tardi, mentre Baffo si era appisolato davanti al camino come se avesse dovuto rifarsi da un millenario sonno e stavano sorseggiando un ottimo caffè nonostante i mezzi, il vecchio, che aveva ormai ascoltato tutto della sua storia da pedone cinquantenne dall’incerto destino, prese un tizzone a mo’ di torcia dal camino e gli chiese di seguirlo attraverso una porta che sembrava mimetizzata, fatta da un nylon grigio dello stesso colore del cemento. In quest’altra stanza, a terra, c’era una base di sabbia sul pavimento di cemento armato su cui aveva incastonato tutti quei frammenti colorati che raccoglieva sulla spiaggia formando dei mosaici, c’erano le immagini dei suoi cari ricomposte con i colori della sua terra, c’erano il mare in tempesta ed una nave. Il vento ancora doveva finirlo, disse che era il più difficile da fare. Quel vecchio riceveva dal mare poco a poco ciò che gli era stato tolto e lo ricomponeva pazientemente giorno dopo giorno. Un anno dopo, due coniugi inglesi, turisti di passaggio, entravano dentro la bottega di un negozio di mosaici artigianali, notandone uno ricchissimo di colori e particolari appeso dietro la cassa. Raffigurava un maestoso cavallo alla carriera tra i pezzi immobili di una scacchiera dai colori del mare in tempesta. Ne chiedevano il prezzo. Gli veniva gentilmente risposto che quel pezzo non era in vendita. Un po’ delusi, voltavano lo sguardo incuriositi da un vecchio che parlava pacioso sottovoce ad un cane peloso e pezzato, nel retrobottega.